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Storia di un quartetto: il Quartetto Maurice

di Filippo Simonelli - 16 Giugno 2021

Vent’anni di attività, un’evoluzione artistica che va dal più classico dei linguaggi e dei percorsi di formazione, fatto di grandi docenti e istituzioni, fino all’approdo verso il Novecento Storico prima e la musica dei giorni nostri poi. Questa è, in estrema sintesi, la parabola del Quartetto Maurice, una delle formazioni cameristiche più longeve in Italia, animata da uno spirito di ricerca fuori dal comune, ma anche da un’attenzione divulgativa e quasi didattica che ne rende il lavoro sempre un grande servizio per la musica.

Il festival da loro organizzato “Musica in Prossimità” rappresenta la realizzazione pratica di questo approccio, e la prossima inaugurazione ci ha offerto la possibilità di fare una ricca chiacchierata a tutto tondo sul loro lavoro. Ma andiamo con ordine, partendo dalle basi.

La nostra storia è quella tradizionale: siamo nati come quartetto classico, con una formazione alla Scuola di Musica di Fiesole e con grandi maestri in tutta Europa, affrontando un repertorio che è fondamentale per chi fa questo mestiere. Poi, col tempo, siamo approdati prima al Novecento Storico ed in seguito  alla musica contemporanea. Ci teniamo sempre a sottolineare che le nostre scelte non sono mai state “pensate a tavolino”, ma abbiamo assecondato la nostra indole di gruppo, cercando anche di evitare le tentazioni e gli obblighi che il sistema circostante impone in termini di repertorio e di visione artistica. La scelta di abbandonare progressivamente il repertorio classico è stata una naturale svolta verso il repertorio contemporaneo, in cui crediamo invece di poter dare il nostro massimo dal punto di vista interpretativo.

Una costante e instancabile ricerca del suono: parliamone. Come lavorate in questo senso?

Ogni compositore ha il suo suono; noi sappiamo quando la nostra ricerca inizia ma siamo consapevoli che abbiamo di fronte un orizzonte infinito. La nostra formazione quartettistica classica costituisce sempre il punto di partenza per comprendere le interazioni tra le parti, l’impalcatura armonica, i ruoli. Da qui procediamo verso la ricerca che più ci ha affascinato nell’ambito del contemporaneo: l’estrema possibilità di trasfigurazione del suono, una trasfigurazione che dobbiamo compiere noi stessi, attraverso un grosso slancio di immaginazione per calarci sempre in una nuova poetica. L’apporto dell’elettronica merita poi un discorso a parte, perché ci permette di aggiungere e raggiungere ancora più colori al suono che immaginiamo. Sicuramente abbiamo potuto fare un grande salto interpretativo  iniziando a lavorare a fianco dei nuovi mezzi tecnologici, proprio perché ci ha permesso di  possedere strumenti di pensiero e di linguaggio che prima non avevamo. Ovviamente  l’interazione diretta con i compositori è costante e fondamentale fonte di ispirazione nel portare avanti la nostra ricerca sonora.

Sicuramente uno dei grandi vantaggi di lavorare sulla musica contemporanea è quello di potersi effettivamente confrontare proprio con i creatori di questa musica: nella ricerca di cui parlavamo prima, quando c’è di vostro e quanto invece appartiene ad una ricerca da parte dell’autore stesso?

Il discorso è da vedere da due punti di vista. Se un quartetto è stato commissionato da noi, per esempio, è probabile che inconsciamente porti con sé degli elementi che in qualche maniera vanno a braccetto con quel che siamo; oppure viceversa ci pone di fronte a delle nuove sfide. Succedono regolarmente entrambe le cose e quindi anzitutto ci poniamo nel rispetto di non snaturare l’intenzione del compositore.  Quando c’è la possibilità di lavorare direttamente con lui cerchiamo di andare molto a fondo e di trovare un suono “personale”; questa è l’attività su cui probabilmente ci spendiamo di più.

Dal punto di vista del quartetto come ensemble generalmente inteso, il discorso diventa ancora più ampio. Studiando il repertorio classico e la prassi esecutiva si impara presto che in realtà quello che c’è scritto sul pentagramma rappresenta un cinquanta per cento della musica che ne viene fuori, lasciando quindi uno “spazio di manovra”  interpretativo importante. Anche in una scrittura più “complessa” come quella della musica contemporanea, dove spesso tutto è scritto fin nel minimo dettaglio in quanto è più complesso il suono che si va a creare, non vediamo un atteggiamento costretto o imbrigliato dell’interprete.

Crediamo molto nel fatto che un ensemble o quartetto non diventino elementi secondari rispetto ad una partitura, che questa contenga tutto e che la stessa partitura stessa sia il fine della composizione. Altrimenti c’è il rischio che si diventi qualcosa di simile ad un “juke-box”, con esecuzioni un po’ vuote ed anonime. Il nostro lavoro dal punto di vista interpretativo è poi altrettanto importante quando affrontiamo linguaggi molto diversi tra loro, per esempio partiture come quelle di Lachenmann, dove tutto è estremamente preciso, o quelle come il terzo quartetto di Haas, dove  la partitura è una traccia che lascia un grosso margine all’improvvisazione.

A proposito di compositori “diversi”: scorrendo la lista del vostro repertorio ciò che stupisce è la grande varietà di compositori, di linguaggi e stili che riuscite a tenere insieme. Come si fa a far convivere insieme universi così differenti?

Ci sono più aspetti: alcuni compositori che abbiamo in repertorio sono frutto di alcune fasi ben precise del nostro percorso. Abbiamo avuto fasi estremamente diverse: Glass e Reich per esempio potrebbero rientrare negli amori giovanili, mentre Lachenmann o Nono sono più legati all’oggi. Però ci piace anche esplorare linguaggi diversi contemporaneamente, facendo una grande attenzione a creare dei programmi di concerto che siano intesi come un unicum. L’accostamento del repertorio è molto importante, possiamo lavorare per contrasto o per assonanza tra i brani, ma cerchiamo sempre di partire da un’idea di viaggio. Questa è la nostra chiave di lettura: costruire delle esperienze d’ascolto.

Siamo certamente un po’ maniacali su tanti aspetti, anche su cose che magari possono sembrare secondarie come l’ordine dei pezzi nei concerti: in realtà è fondamentale anche scegliere cosa far sentire prima e cosa dopo, specie con una musica che spesso risulta difficile ad un primo ascolto, in quanto il pubblico difficilmente è abituato a fruirne con regolarità.

Nell’elaborare le nostre proposte ci siamo spinti talvolta anche oltre alla semplice forma del concerto. Negli ultimi anni ci siamo aperti ad esperienze più simili a performance multimediali o multidisciplinari, ampliando ancor di più il ventaglio della nostra ricerca sul contemporaneo, cercando di superare i confini dei ruoli “pre-fissati” di  compositore – interpreti – ballerino – videomaker e così via. È un grosso lavoro, che richiede una notevole impegno fuori dal palco, fatto di ascolti, concerti, confronti e incontri.

E queste cose vengono messe in pratica poi anche e soprattutto in progetti come Musica in Prossimità, d’altronde.

Questo Festival è il prodotto anzitutto di una grande forza di volontà: quest’anno più che mai è stato difficilissimo condurlo in porto, e continuiamo a fare i dovuti scongiuri. Forse proprio per queste difficoltà è nata un’edizione particolarmente “strutturata”: abbiamo dovuto sacrificare alcuni progetti per questioni logistiche, naturalmente, ma abbiamo comunque costruito un parterre internazionale molto impegnativo specie per una realtà come Pinerolo, città in cui si svolge il Festival. Noi suoneremo due volte, così come due sono le parti che costruiscono il Festival: la prima consiste in un piccolo benvenuto con il primo quartetto di Furrer; la seconda è un concerto a luglio con due prime assolute e tanta elettronica. Il Festival propone una sorta di focus sulla voce e sulle sue declinazioni, oltre che sull’elettronica, riuscendo però a bilanciare il repertorio storico della musica contemporanea e la musica nuova e nuovissima.

Per costruire la programmazione di quest’anno, ma è una cosa che in realtà facciamo sempre, abbiamo lavorato pensando anche al pubblico non esperto – quello “di prossimità” che dà il nome al Festival poi- costruendo qualcosa che possa arrivare in maniera chiara. Ci piace lavorare oltre che ai concerti anche a dei momenti di condivisione e divulgazione, con le conferenze degli autori per esempio; anche i momenti conviviali – che abbiamo dovuto ridimensionare per ovvi motivi sanitari– sono sempre stati fondamentali per mettere in discussione quelle barriere tra pubblico e artisti che costituiscono a nostro avviso uno dei problemi principali della fruizione libera da pregiudizi della musica contemporanea. In tutto il Festival  l’idea di viaggio prevale: tutti gli appuntamenti costituiscono in realtà un unico grande concerto.

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