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Zlata Chochieva al Festival Cristofori

di Filippo Simonelli - 30 Settembre 2018

Il concerto della giovane pianista russa a Padova è andato ben oltre le nostre migliori aspettative

Zlata Chochieva è una virtuosa del pianoforte russo, sulla carta erede di quella grande tradizione pianistica proveniente dall’est che l’ha già fatta affermare come esecutrice di fama mondiale del repertorio romantico. Nulla da eccepire su questo, che non è poco; ma c’è qualcosa di più. Le incisioni della pianista moscovita, e ancora di più i suoi concerti come il pubblico padovano ha avuto modo di osservare di persona, hanno un carattere fortemente individuale. Ci si siede al pianoforte non solo per eseguire quanto scritto sui pentagrammi, ma anche per rendere partecipe il pubblico di un discorso, in maniera allusiva, mai didascalica, che si presta forse a più interpretazioni, ma lascia comunque un senso di curiosità fondamentale per legare lo spettatore alla musica che ha ascoltato e che verosimilmente si spera tornerà ad ascoltare in futuro. Ma andiamo con ordine, parlando del concerto.

La serata ha un taglio fortemente slavo, come già in precedenza era stato per il concerto di Antonii Baryshevskyi: il programma comprende tre tempi dalla partita per violino in mi maggiore di Bach nella rilettura di Rachmaninov, un’alternanza di Mazurke di Chopin e Skrjabin, un’intromissione nel mondo mitteleuropeo con Liszt e infine la possente Prima Sonata di Rachmaninov.

Nella sua trascrizione bachiana Rachmaninov imprime una profonda impronta estetica, rendendola differente da altre più celebri riproposizioni pianistiche delle musiche bachiane, su tutte quelle di Busoni e Brahms. La Chochieva affronta il brano con un piglio “romantico”, rendendo il brano molto più legato al pianismo di Rachmaninov che non allo stile bachiano, senza tuttavia mai compromettere la soddisfacente polifonia originale. Di fatto il primo brano funge però da riscaldamento, da antipasto alla parte più imponente del concerto.
C’è una doppia chiave di lettura nell’interpretazione di Zlata Chochieva nel dittico slavo Chopin-Skrjabin: le Mazurke diventano parte di una storia che la pianista decide di raccontare al pubblico in una sorta di storia in continua evoluzione, che prescinde dal carattere di danza originario del genere per assumere un valore sempre più introspettivo e mettendo in luce la capacità dell’interprete di appropriarsi del brano.
L’esecuzione dei brani assume un valore duplice: da un lato la continuità stilistica tra i due, ricercata incessantemente da Skrjabin fin dai primi anni della sua produzione, dall’altro mette in mostra la parallela evoluzione dell’estetica dei due compositori. Chopin porta il suo linguaggio verso mete che saranno poi tipiche del tardo romanticismo, usando la forma della mazurka quasi come un pretesto per la sua inventiva, mentre Skrjabin prende gradualmente confidenza con i linguaggi del secolo venturo di cui sarà egli stesso apripista.
Lo Chopin della pianista moscovita è rinomato: Gramophone ha addirittura inserito la sua incisione degli studi op. 25 nella lista delle migliori registrazioni chopiniane di sempre, accanto a nomi che hanno fatto la storia dello strumento. Quello che traspare maggiormente da questo momento, probabilmente il più interessante di tutto il concerto per capire l’estetica e l’approccio della Chochieva: occorre fare scelte coraggiose per trovare e rendere evidente il filo rosso sotterraneo che lega i due compositori a quasi mezzo secolo di distanza, al di là delle più ovvie attinenze biografiche e della dichiarata volontà di Skrjabin di seguire le orme del musicista polacco. Il virtuosismo diviene un carattere secondario, legato principalmente alla necessità di accentuare i tratti più avveniristici e originali delle rispettive scelte armoniche.

Chiusasi l’ultima mazurka, è arrivato il momento di Liszt, il cui Mephisto Waltz n. 2 è l’unico brano del tutto privo di un carattere slavo: parte della produzione tarda di Liszt e legato ad un tema mitteleuropeo per eccellenza quale il doktor Faust, il Mephisto offre dei nuovi spunti per osservare il pianismo di Zlata Chochieva. Certamente, Liszt è il compositore virtuoso par excellence, ma il virtuosismo che esce dalle sue mani è peculiare, quasi essenziale, parte integrale del programma che si era posto Liszt, nel dare una rappresentazione fedele dei personaggi di Lenau. A prevalere non sono tanto i ghirigori e gli arabeschi pianistici, quanto il carattere demonico e tentatore delle linee melodiche che simboleggiano Mefistofele.

Dopo un meritato intervallo, è il momento del vero tour de force: la Prima Sonata di Rachmaninov, che torna questa volta in veste di compositore e non di arrangiatore restituendo una sorta di circolarità al programma. Anche Rachmaninov è una presenza stabile del repertorio della Chocieva, che ha inciso i suoi Etudes Tableaux nella sua ultima fatica discografica, ma la Prima Sonata, brano ancora poco affermato nel repertorio da concerto, rappresenta comunque una sfida titanica. Nella sala dell’Auditorium del Conservatorio Pollini risuonano le prime note del tempo di apertura, una quinta solenne ma interrogativa, subito spezzata da una vigorosa cadenza che sembra mettere a tacere ogni dubbio, ma che in realtà funge da trampolino di lancio per far partire un discorso lungo ed articolato nei tre tempi della sonata. Il brano è senza dubbio il più impegnativo del programma, e oltre a sentirsi si vede. La mimica della pianista si fa più concentrata, lo sforzo è evidente e i gesti rivelano una profonda partecipazione ad ogni singola nota, ogni emissione di suono. Ma nulla di questo è sfoggio, tutto serve ad un preciso proposito retorico: suonare, per Zlata Chochieva, è come raccontare una storia, ed è la storia di Rachmaninov, le sue indecisioni e la sua fatica a partorire un pezzo così imponente e sofferto e a tratti bipolare, pur incasellato nelle formule della Sonata Tripartita, a richiedere questo tipo di sforzo e nessun altro. Il primo movimento è quello più inevitabilmente sofferto, per l’incrocio di difficoltà tecniche e necessità espressiva, mentre il tempo centrale e il pirotecnico finale ne sono una filiazione diretta.

A chiudere il concerto, uno studio di Chopin e un Tableaux di Rachmaninov suonati con una naturalezza effettivamente sorprendente dopo uno sforzo del genere. Chiaramente per chi ne ha inciso entrambe le raccolte rappresentano il pane quotidiano, ma che non smettono mai di stupire chi si trova dall’altra parte del palcoscenico.

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