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Viotti e Gibboni fanno sul serio

di Filippo Simonelli - 7 Novembre 2021

Un fine settimana di debutti importanti, per l’Accademia di Santa Cecilia: per la prima volta sul podio Lorenzo Viotti, a rompere il ghiaccio da solista Giuseppe Gibboni, chiamato in fretta e furia a sostituire Veronika Eberle dopo un’improvvisa indisposizione. Un programma estremamente denso, con Richard e Johann Strauss, Tchaikovskij e Ravel, e una sala che finalmente sta riprendendo i suoi livelli di pubblico abituale. Tutti ingredienti fondamentali per mettere insieme tre date importanti, delle quali si sentiva veramente nostalgia e che tutto sommato non bastano mai.

Un debutto da ricordare

Giuseppe Gibboni probabilmente sta vivendo il mese più incredibile della sua vita: in pochi giorni, con la vittoria di uno dei concorsi più importanti al mondo, si è trovato catapultato non solo nella notorietà nazionale con tanto di ospitate televisive, passaggi radiofonici e interviste (tra cui la nostra, che potete leggere qui), ma è stato anche chiamato come sostituto di lusso a debuttare con la più importante istituzione sinfonica del paese. Nel valutare un musicista, oltre a rendere conto di quel che compie sul palco, c’è da guardare a tutta una serie di aspetti che sono solo apparentemente secondari: i nervi di acciaio che questo ragazzo, poco più che maggiorenne, sta dimostrando sono un segnale inequivocabile di quanto la sua testa possa portarlo ancora molto più in alto di quanto sia già ora. Roba da vertigini.

Passando ad un giudizio più mirato sull’interpretazione del concerto di Tchaikovskij, emergono alcuni dati di fatto. In primo luogo, la tecnica è ineccepibile: pulizia suprema, velocità e controllo ci sono in ogni caso. Il suono forse è da arricchire: dopo un lungo periodo di Paganini, con le sue leggere tessiture orchestrali, scontrarsi con la massa sonora di un concerto russo non è banale. Gibboni ha preso le misure, anche grazie al paziente lavoro di Viotti per creare le condizioni migliori possibili, e nel corso dei movimenti il bilanciamento solista-orchestra è stato sempre migliore. Inutile anche solo commentare i due capricci, 15 e 24, con cui ha mandato in visibilio il pubblico dell’Accademia. Non è esagerato dire che la musica del compositore genovese è oramai il suo giardino di casa.

Per tirare le somme, le premesse per fare qualcosa di grande ci sono tutte, ma c’è ancora molto da lavorare. Sarebbe strano il contrario del resto, parlando di un solista che ha appena 20 anni.

L’apoteosi del Valzer – e di Viotti

Il concerto di questo fine settimana non è stato solo Gibboni, anzi. Il nome di Lorenzo Viotti risuona nelle orecchie di esperti e appassionati da parecchi anni, oramai; nonostante abbia solo trentun’anni, in un mondo artistico in cui età di accesso ai massimi livelli si è abbassata vertiginosamente, risulta essere quasi un veterano. Alla sua età vanta non solo un’esperienza sul podio con pochi eguali, ma anche un mestiere acquisito in orchestra come percussionista che gli ha dato sicuramente una conoscenza diretta delle dinamiche e della vita “orchestrale” che difficilmente i manuali potranno mai insegnare. La strada è ancora lunga, ma interpretazioni come quelle del concerto ceciliano, personali e di carattere sì ma intellettualmente oneste, danno motivo di sperare in qualcosa di seriamente importante.

Il programma della serata, oltre al già menzionato Concerto di Tchaikovskij, prevedeva ben tre ulteriori brani: l’ouverture dal Fledermaus di Johann Strauss, i Valzer del Rosenkavalier di Richard Strauss e La Valse di Ravel. L’insieme offre una prospettiva estremamente caleidoscopica di quella che è stata la musica “da ballo” nell’ottocento e nel novecento, o meglio di come è stata filtrata attraverso le lenti dei compositori colti. Nonostante il filo conduttore estremamente chiaro ed evidente, i brani vivono ognuno di anima propria: per Johann Strauss il valzer è vita, per Strauss nostalgia e per Ravel parodia.

Viotti ha scelto di privilegiare la strada dell’unicità per ciascuno di questi brani. Pur emergendo una certa compattezza e riconoscibilità che lega ciascun’esecuzione, merito anche di un’orchestra perfettamente rodata e che sposa in maniera spontanea le idee di fondo del direttore, spicca da ogni brano una caratteristica unica. Nel pipistrello straussiano il gesto di Viotti è leggero e “volante”, per l’appunto; in Tchaikovskij a fare da cifra è la comunione di intenti con un solista sì giovane ma di personalità come Gibboni.

Con il secondo tempo del concerto le cose cambiano radicalmente. Sia Strauss che Ravel sono stati memorabili: la sequenza dei valzer del cavaliere della rosa è stata più perfetta di un’incisione discografica. La gestualità del direttore si è rispecchiata perfettamente in ogni emissione sonora dell’orchestra; per rendere le cose ancor più galvanizzanti, Viotti ha condotto la seconda parte del concerto interamente a memoria – e si trattava di partiture “non semplici”, per usare un eufemismo. C’è da dire certo che l’orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia ha sempre brillato nel repertorio del tardo romanticismo “massiccio”, cifra stilistica che era anche propria dello stesso Pappano, ma questa non può essere in alcun modo una diminutio del lavoro del giovane direttore svizzero: non solo è riuscito a conquistare un’orchestra esigente come Santa Cecilia, abituata a lavorare con direttori che hanno un’esperienza che – almeno anagraficamente – Viotti non ha ancora neppure lontanamente raggiunto, ma gli è anche riuscito a dare una direzione ben precisa con una personalità forte. La musica del cavaliere della rosa era sensitivamente appagante, quasi profumata: nei momenti più danzanti si potevano immaginare i Fiori di Sanremo che arricchiscono il palco del concerto di Capodanno a Vienna, in quelli più lirici era aperto uno squarcio verso le armonie eteree dei Vier Letzte Lieder.

Anche La Valse ha regalato uno splendido quarto d’ora di musica: sonorità ricercate, esaltazione della tecnica dei solisti e dell’orchestra nel suo insieme, fino ad arrivare all’esasperante effetto di “apoteosi del Valzer” che lo stesso Ravel aveva cercato così insistentemente di infondere la partitura. C’è da dire però che, per quanto sia stata un’esecuzione memorabile, non ha ricreato la stessa magia del Cavaliere che aveva seguito: la reazione del pubblico, già in fermento per il virtuosismo di Gibboni, è stata meravigliosamente estatica, esaltata ed entusiasta. Un uomo seduto pochi posti di fianco a chi ora scrive ha sentenziato, non appena terminata l’ultima nota, che Viotti sembra nato per dirigere proprio Rosenkavalier. Si sa che nei momenti di esaltazione escono fuori boutades che lasciano il tempo che trovano, ma sfido chiunque sia stato presente in sala a negare di aver accarezzato anche solo per un secondo fugace il pensiero. Perché c’è stata una verità fondamentale che è emersa da quest’interpretazione: nel vortice di note straussiane l’intensità dell’orchestra, tutt’una col suo direttore, era tale da prendere interamente il sopravvento anche sul più caotico dei monologhi interiori che affollano quotidianamente la nostra mente. Non so se si tratti di una serata di grazia, di un legame particolare con un brano o un singolo autore – ma anche Ravel, come già detto, era pregiatissimo, e Fledermaus e il Concerto assolutamente all’altezza. Fatto sta che questa potrebbe essere proprio la cifra di un grande direttore, destinato solo a crescere ancora col tempo.

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