Cosa ci ha detto The Gospel According to the Other Mary di John Adams?
di Filippo Simonelli - 4 Novembre 2018
reazioni contrastanti
Quando verso la fine della scorsa primavera l’Accademia di Santa Cecilia ha annunciato la stagione ventura, mi aveva decisamente emozionato la presenza di John Adams tra i nomi in programma sia come compositore che come direttore. The Gospel According to the Other Mary è un pezzo che al momento della sua uscita aveva suscitato un certo scalpore nonché reazioni contrastanti. Soprattutto non era stato ancora eseguito in Italia, motivo in più per esserci a tutti i costi.
Adams è uno dei compositori viventi più popolari: ogni anno si alterna con Arvo Pärt testa alla classifica dei compositori più eseguiti, e le sue opere in senso lato hanno accompagnato buona parte degli anni più traumatici, musicalmente parlando, del secondo novecento, uscendone ogni volta rinnovate nello stile e nella poetica. La sua postura politica, un liberal della east coast ama definirsi, permea gran parte della sua produzione, nella poetica scritta e in quella solamente allusa con la musica. Tutto questo mare magnum di influenze e stimoli lo rende non solo un compositore interessante, perché a quanto elencato di sopra si assomma una perizia tecnica invidiabile, ma anche un musicista tipicamente americano, con tutto quel che ne consegue.
Adams ha vissuto, e forse vive ancora oggi, alla ricerca del “grande romanzo americano” da mettere in musica. E non sono speculazioni, ma lui stesso nella sua autobiografia “Hallelujah Junction” si domanda come sia possibile che non esista un contraltare per il suo paese di quello che è per la cultura germanica, ma in senso lato per quella europea, la Nona Sinfonia. The Gospel According to the Other Mary è un tentativo di dar voce a questa esigenza profonda che ha mosso prima di lui praticamente ogni compositore americano. Ma il compito non è semplice, perché la realtà con cui si confronta John Adams è molto più sfaccettata e in convulsa evoluzione di quella che aveva di fronte ormai due secoli fa Beethoven. E per fare questo compie delle scelte, sia sul piano del libretto che della musica, che rendono quest’opera il più possibile mutevole e multiforme. Per cercare di rendere conto di tutti questi aspetti bisognerà procedere per gradi.
Il libretto e la musica
The Gospel According to The Other Mary nasce dalla collaudata collaborazione del compositore con Peter Sellars. I due avevano già lavorato in passato al libretto di altre composizioni del musicista del New England, tra cui spicca El Nino, altra opera oratorio che racconta una natività ambientata ai giorni nostri e che lo stesso Adams ha inteso essere prima parte di un trittico che The Gospel porta verso il completamento. Il procedimento con cui i due hanno (letteralmente) fabbricato il libretto è uno dei trait d’union con El Niño e merita una particolare attenzione: non si tratta di un testo scritto ex novo, ma è un gigantesco pastiche di fonti letterarie apparentemente distanti tra di loro sotto tutti i punti di vista: il testo è cantato in tre lingue, proviene da epoche diverse che vanno dai testi evangelici al medioevo di Ildegarda di Bingen fino alla contemporaneità di Louise Erdrich, e uniscono fonti laiche, letteratura e diari di attivisti.
Questa molteplicità di riferimenti culturali trova un suo riflesso anche nella musica. Adams è diventato celebre per aver rappresentato un po’ l’apice ed al tempo stesso il superamento del minimalismo americano, e negli ultimi anni ha scelto di esplorare a partire dal proprio campo di partenza terreni vicini e lontani per creare linguaggi sempre nuovi. Figlio di questa ricerca di prospettive è anche l’uso di una strumentazione talvolta atipica. Nell’orchestra spicca la presenza di un massiccio apparato percussivo, di un salterio e di un basso elettrico, che si mischiano all’organico più classico con risultati dalle fortune alterne, specie quando l’amplificazione del basso prende il sopravvento sugli altri strumenti.
Le parti vocali sono affidate ad un trio di controtenori, un mezzosoprano, un contralto ed un tenore. Le voci dei tre controtenori, a cui per sommi capi potremmo dire che viene affidato il ruolo di narratori, creano un effetto straniante: le sonorità quasi da castrato dei tre argentini cherubini fungono da architrave per la scrittura vocale, talvolta volutamente irritante, che raggiunge l’apice nei saltuari ma intensi momenti in cui le voci si rincorrono in giochi contrappuntistici. Il mezzo, interpretato a Santa Cecilia da Kelley O’Connor, incarna perfettamente il personaggio della Other Mary così a cavallo tra i secoli. Vestita di bianco, scalza, alterna momenti di rapimento quasi estatico a una furia e un’iracondia che rasentano la schizofrenia, raggiungendo registri incredibilmente distanti nel corso della stessa aria. Il contralto, a Roma impersonato da Elisabeth DeShong, ha una consegna diversa, solo apparentemente riempitiva rispetto a quanto fatto dalla “protagonista”: la DeShong infatti alterna passaggi spiccatamente operistici a reminiscenze da musical, mostrando un virtuosismo insolito ma non meno interessante di quelli più canonici. La voce maschile, che principalmente incarna il personaggio di Lazzaro, è quella a cui vengono affidati i momenti più interessanti dell’intera Opera-Oratorio, su cui bisognerà tornare in seguito.
La serata
Calate le luci sulla sala e riempito il palco, ha fatto il suo ingresso Adams. Un uomo sulla settantina che dimostra molti meno anni di quelli che effettivamente ha, si è spinto sul podio e dopo aver raccolto il primo caloroso applauso ha rivolto al pubblico un messaggio accuratamente preparato, letto in un italiano per giunta perfetto, in cui spiegava il contenuto di quello che avremmo sentito di lì a poco. Già questo fatto esula dal semplice fatto di cronaca e rivela due aspetti importanti: da un lato Adams vuole accogliere ed accompagnare il pubblico verso la sua musica con una dovizia di particolari quasi insolita per un preconcerto, dall’altro è consapevole verosimilmente di quanto sia oscura la foresta musicale che ha creato: da qui il desiderio di dare subito appigli saldi all’ascoltatore entrante.
E infatti la musica spiazza il pubblico fin da subito: l’inizio in medias res dal punto di vista musicale – manca una ouverture o comunque un’introduzione musicale – e narrativo, il testo inizia con un estratto di Dorothy Day e non con un passo evangelico. L’opera prosegue in maniera assertiva con uno stile che potremmo definire modernista fino al primo vero momento di stasi, l’Interludio della Morte di Lazzaro. La musica inizia a dissolversi e a proiettare nuove atmosfere nella sala Santa Cecilia, evocando paesaggi sonori che ricordano il Ligeti più spettrale. La scelta di usare un “tema” fatto principalmente di glissando brevi e secchi degli archi a rappresentare la morte evoca una dimensione rarefatta molto cara al maestro ungherese. Un particolare che risalta particolarmente dal vivo e che amplifica di molto l’esperienza sonora del brano è l’ingombrante presenza del basso elettrico che si mischia alla tessitura orchestrale ed in alcuni momenti in cui la massa sonora diventa particolarmente imponente finisce addirittura per soverchiare la sezione degli archi, creando un effetto inedito e studiatamente sgradevole per un orecchio classico.
Con l’avanzare della musica si amplia il pantheon di musicisti a cui Adams attinge in maniera più o meno esplicita per costruire il proprio calderone linguistico: ecco fare capolino Messiaen, che funge un po’ anche da contraltare spirituale di Adams, seguito da Rautavaara che lo accompagna nei passaggi più mistici. Ma rimane sotto traccia una sorta di continuum post-minimalista: Adams ricava degli stilemi tipici dai propri lavori più celebri, come Harmonielehre, e li dissemina qui e lì in dettagli che ad un primo ascolto, specie se in cuffia, rischiano di sfuggire ma che assumono un valore diverso e che torneranno fondamentali soprattutto nel secondo atto dell’Opera. Ci sono piccoli ostinati dell’arpa, dettagli del salterio che con le ossessive ripetizioni care al primo Adams gli forniscono un terreno di appoggio su cui costruire con una maggiore sicurezza.
Il culmine del primo atto arriva con la sua conclusione: Lazzaro, qui interpretato dal possente Jay Hunter Morris, dopo essere stato a lungo convitato di pietra canta a breve distanza due arie. La seconda è quella che ci interessa di più: basata su testo di Primo Levi, l’aria del Passover porta finalmente ad un primo compimento il pellegrinaggio musicale dell’ascoltatore. È Interessante notare come nel momento più genuinamente lirico di tutto The Gospel According to The Other Mary Adams semplifichi il linguaggio facendolo assomigliare quasi ad una canzone degna dei migliori musical à lá Leonard Bernstein. Ovviamente non si tratta di una “semplice” scena da Broadway, il testo di Levi è drammatico, e la musica si fa man mano sempre più intensa. È la linea del canto, così trasparente su una tessitura così arabescata, ad offrirci un appiglio, a fornire il pretesto per addomesticare la musica che si agita in maniera riottosa sotto la voce sicura del cantante ed a condurre il primo atto verso una fine quasi pacificante.
Il secondo atto però spezza subito l’incantesimo nato nel silenzio dell’intervallo.
Più si avvicina la Passione vera e propria più la musica si riaddensa e la narrazione incalza, in un crescente incrocio di testo antico e moderno, arrivando persino a dissacrare accostando le parole degli Evangelisti ai crudissimi resoconti di Dorothy Day o facendo sovrapporre i testi di Louise Erdrich alle preghiere di Ildegarda di Bingen. Sono due i punti salienti di questo secondo atto: il coro delle figlie di Gerusalemme, che è costruito come il climax di maggior effetto di tutto il brano. Le voci femminili del coro germinano come una specie di chiacchiericcio diffuso, come se d’improvviso ci fosse stata una pausa inattesa, lasciando poi man mano entrare le controparti maschili. Il volume sonoro si accresce, si accresce sempre più velocemente fino a prorompere in un boato che ci riporta nel bel mezzo della scena madre della passione.
L’altro punto musicalmente più stimolante è il coro “It is spring”. Siamo quasi alla fine dell’opera e la Passione si è consumata: intorno al sepolcro di Gesù si rinnova la natura in primavera e sta per compiersi il volere di Dio. A questo momento così alto e delicato, Adams sceglie di affiancare la musica più lieve, quasi sbarazzina di tutta l’opera. Flauto e clarinetto si intersecano di continuo e creano assieme al salterio e agli archi un tappeto sonoro che ricorda ancora una volta da vicino il minimalismo con cui Adams si sente così a casa. Il brano, l’antitesi di qualsiasi didascalia, lascia il passo ad una sezione intermedia dal carattere più oscuro, a cui si sovrappongono di nuovo liriche moderne. Ma rimane il sottotesto minimalista, caratterizzato da un ossessivo ostinato del flauto che conduce poi la melodia a casa quando a Maria subentra di nuovo il coro prima che si arrivi all’ultima drammatica scena.
L’Orchestra di Santa Cecilia ha affrontato un’opera complessa come The Gospel According to the Other Mary con risultati eccellenti. La lettura dell’orchestra romana è stata sinceramente illuminante per arrivare più a fondo nel groviglio di simboli ed allusioni creati dalla sintesi di libretto e musica.
Adams, con fare sicuro di chi non solo conosce la propria creazione ma ha un’esperienza di direttore ed interprete che non va sottovalutata, addomestica il curioso organico di cui si serve con fare sapiente. Il suo gesto è sempre misurato e mai didascalico, anche nei momenti di maggiore tensione.
C’è un messaggio dietro a The Gospel According to the Other Mary?
Apparentemente il Vangelo secondo John Adams ha un messaggio molto chiaro: viviamo una realtà apparentemente immutabile che perpetua ancora le ingiustizie ed i drammi che perseguitano l’umanità dai tempi della venuta di Gesù Cristo. Ma possiamo combattere le battaglie giuste per sconfiggere questi soprusi, o quantomeno per far aprire gli occhi ai nostri fratelli. Questa lettura ha sicuramente del vero, ma sarebbe superficiale considerarla esaustiva. Adams è consapevole del ruolo pedagogico che assume la sua musica ed il suo comportamento sul palco e la lettura della ricca introduzione prima di alzare la bacchetta ne sono un chiaro segnale. Ma c’è dell’altro, perché lo stesso Adams sa di avere dei dubbi profondi, delle ferite che non riesce a sanare e che vuole suscitare nello stesso ascoltatore. E qui la musica ci viene in soccorso, e con essa l’allusione precedente a Messiaen. Per primo Alex Ross ha paragonato questo lavoro così denso di spiritualità in tutti i sensi a quelli del compositore ed ornitologo francese. Ci sono dei riferimenti armonici molto chiari, ma soprattutto c’è un movente comune che porta i due all’esigenza creatrice: la ricerca di una risposta, una spiegazione, una fede sicura. Messiaen, incrollabile cattolico, trova questa chiave di volta, Adams no. Non c’è nessun finale rassicurante, né musicalmente né narrativamente, tanto che la narrazione biblica di The Gospel According to the Other Mary si interrompe prima che arrivi a compimento il disegno celeste. Dire con esattezza, a questo punto, quale sia il punto fermo di Adams mi sembra un compito veramente impossibile, c’è forse da aspettare che il trittico spirituale iniziato con El Niño arrivi a compimento per avere qualche certezza. Sta di fatto che, seppur con qualche esitazione e qualche riserva, questo Vangelo è un buon candidato per diventare quel “grande romanzo” a cui si faceva riferimento in apertura, che probabilmente Adams mira a scrivere o completare. Americano o universale.
Filippo Simonelli