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Samuele Telari, l’arte del Bayan

di Filippo Simonelli - 3 Agosto 2020

Fisarmonica e Bayan sono visti ancora come strumenti legati al Folklore; per fortuna ci sono musicisti che stanno lavorando per rompere questi clichés, primo fra tutti Samuele Telari.

La rassegna dei Suoni Farnesiani, organizzata dall’Accademia degli Sfaccendati di Ariccia in trasferta a Caprarola si è chiusa in maniera originale: originale per la scelta dell’interprete, dello strumento e del repertorio, cose non da poco considerando la tentazione ricorrente di molte stagioni di optare su scelte “sicure” per riportare il pubblico in sala dopo i mesi di profondo buio della pandemia. Protagonista del pomeriggio nella Tuscia è stato Samuele Telari, giovane ma oramai decisamente affermato fisarmonicista spoletino che sta portando avanti a colpi di concerti una vera e propria opera di infiltrazione del repertorio per fisarmonica nelle stagioni tradizionali. In programma nel pomeriggio di Caparola una selezione di trascrizioni per fisarmonica da brani del repertorio di altri strumenti o per orchestra, affiancati ad una sola composizione originale per fiasrmonica. A questo punto c’è una precisazione necessaria da fare: lo strumento suonato da Samuele non è una semplice fisarmonica, bensì la variante di origine russa detta bayan, dotata di una tastiera a bottoni e con una diversa disposizione dei suoni rispetto alle sue parenti di origine occidentale. La fisarmonica in generale, e con essa tutte le sue varianti meccaniche o locali, è strumento ancora “giovane” nel campo della musica colta: per questo il repertorio è costituito in gran parte di trascrizioni. Già nell’operare la scelta tra queste trascrizioni un interprete deve essere in grado di combinare le diverse possibilità espressive dello strumento con le opportunità offerte da un repertorio ancora in fase di scoperta.

Prima di esplorare brano per brano l’interpretazione, occorre fare una nuova premessa: siamo di fronte ad un musicista di livello veramente internazionale e che sta verosimilmente scrivendo capitoli importanti della storia di questo strumento, almeno a giudizio di chi scrive. Per questo è quasi superfluo dire che il livello esecutivo è stato altissimo ed estremamente curato in tutti i fattori tecnico-escutivi, dalla scelta e la resa delle dinamiche, delle sfumature sonore e delle peculiarità timbriche dello strumento è stata regolarmente all’altezza, in grado di far vibrare veramente con nitidezza ogni singolo suono, dalla frequenza più tenue fino ad un fortissimo che ricordava un tutti orchestrale. Nel fiume di note che compongono i cinque brani ed il sesto bis del programma potrebbe esserci stata qualche nota non pulitissima, qualche lieve sporcatura, ma non ci metterei la mano sul fuoco: in ogni caso, nessun errore, vero o presunto che sia stato, ha intaccato il valore complessivo della performance; dunque ci si soffermerà sulle scelte “estetiche” all’interno dei singoli brani, dando per scontato che la componente tecnica della performance sia stata nettamente all’altezza delle aspettative.

Le trascrizioni dall’orchestra

La prima parte del programma scelto da Telari è stata costruita prevalentemente intorno alla centralità della polifonia che il suo Bayan è in grado di produrre: le trascrizioni dall’Inverno di Vivaldi e quella della Holberg Suite di Grieg. La musica di Vivaldi è apparentemente quella più idealmente distante dal pensiero musicale che si applica al Bayan: non solo per una questione meramente cronologica – era il brano più datato del programma – ma anche per la scrittura agile per archi voluta e cercata dal “Prete rosso”. Cosa può dire di originale uno strumento come il bayan con un brano del genere, così popolare e con una storia di interpretazioni così variegata? Samuele Telari ha scelto di insistere sugli aspetti più coloristici del brano, cercando di valorizzare l’unione accordale dei suoni in blocchi per quanto possibile distinti, andando a mettere in secondo piano l’agilità sonora delle singole parti e in parte la loro autonomia, che però è stata recuperata i una versione assolutamente inedita, dalle peculiarità timbriche proprie dello strumento; in generale si può dire però che la celebre stagione vivaldiana sia stata il brano meno appariscente del concerto. La Holberg Suite di Grieg, di cui Telari ha eseguito una selezione di tre movimenti su cinque, è già stata impostata su binari diversi e con un esito migliore. Questo si può spiegare con due fattori: il linguaggio di Grieg, pur essendo modellato secondo uno stile settecentesco e dunque almeno in parte coevo di Vivaldi, funziona in maniera più “armonica”, permettendo così all’esecutore della trascrizione di mettere in risalto il tutto risultante dai singoli momenti; inoltre la concezione originale della suite è pianistica, dunque destinata ad uno strumento che ha un legame ben più forte e consolidato con il bayan e sul quale, pur al netto di differenze enormi, è più plausibile restituire con fedeltà l’universo espressivo. Il risultato di questo compromesso? Un terzetto di brani estremamente espressivo, capace di passare dall’esordio allegro e quasi spensierato del preludio alle vette di profondità dell’aria, che anzi assumono quasi un valore religioso nell’imitazione del suono organistico prodotta dallo strumento di Telari, il tutto senza trascurare il virtuosismo del Rigaudon conclusivo.

Viaggio in Russia

La seconda parte del programma, in una ipotetica ed arbitraria divisione operata – beninteso – sempre da chi scrive e non dall’interprete, l’attenzione del nostro è stata rivolta verso brani pensati per strumento solo: un brano di Schnittke, originariamente composto come musica di Schnittke per una rappresentazione scenica di Gogol’, il De Profundis di Sofj’a Guibauidulina, unico brano in programma scritto per fisarmonica, ed infine la Campanella di Paganini, vertice della letteratura virtuosistica per violino. La svolta russa del programma ha giovato ancora di più alla resa dell’interprete, forse per il fatto della comune provenienza geografica di musica e strumento o forse per una scrittura originaria più “semplice”, in un certo senso. Sta di fatto che il brano di Schnittke, centrato su idee tonali e da armonia funzionale con delle estemporanee e grottesche dissonanze, sembrava pensato appositamente per la mano di Samuele: le possibilità espressive dello strumento si adattavano a meraviglia al pensiero di Schnittke, seguendo il filo rosso della produzione dell’autore russo in tutti i campi che ha esplorato: veramente di gran gusto.

Prima di eseguire il De Profundis, Telari ha scelto di contestualizzare il brano della compositrice di Cistopol’ con una breve introduzione legata al motivo religioso sottostante al brano, sottolineando al tempo stesso l’importanza di portare un brano magari più ostico all’ascolto ma finalmente pensato sullo strumento e per lo strumento. Il De Profundis, immaginato da Telari come la somma di tre grandi parti che lui stesso ha definito “discese”, permette all’interprete di esplorare una vastissima gamma sonora sorprendente all’ascolto. Anche qui si viaggia dal piano più esasperato al forte urlato, ma sempre in funzione dello strumento: talvolta addirittura sconfinando nell’effettistica pura, anche se necessariamente da riportare al contesto religioso, quasi programmatico, di tutto il brano che, nonostante l’oggettiva difficoltà all’ascolto ha riscosso un discreto successo tra il pubblico di Palazzo Farnese. Scesi dalle montagne russe, ci si rilancia verso il rush finale all’insegna del virtuosismo: l’arrangiamento della Campanella paganiniana di Friedrich Lips è un sapiente colpo di teatro per riequilibrare il rapporto tra pubblico ed interprete. Dopo un quarto d’ora di ascolto piuttosto impegnativo si torna verso una pagina senza dubbio più orecchiabile in cui però Telari ha potuto mettere in luce un versante puramente virtuoso del suo talento che aveva tenuto compagnia al pubblico mettendosi sempre al servizio però di musiche ben più complesse come pensiero e linguaggio rispetto alla melodia del violinista genovese. Applausi grandi e sinceri per il distanziato pubblico sembrerebbero sancire la fine del concerto, ma non può mancare il bis.

Gran finale?

La caratteristica più interessante che è emersa da questo concerto, e che rende veramente unico il bayan come strumento e Telari come suo interprete, è il rapporto simbiotico e quasi fisico tra strumento e strumentista, qualità veramente rara e pressoché impossibile da ricercare negli altri strumenti a tastiera dove per necessità il contatto diretto con l’emissione del suono è profondamente limitato. Qui invece la prospettiva viene stravolta radicalmente, a beneficio sia del pubblico di intenditori che di chi magari si affaccia timidamente alla finestra della musica, e può godere di un rapporto spontaneo e personale con la musica che pochi altri strumenti sono in grado di offrire così nitidamente.

Dopo Paganini sarebbe lecito attendersi un nuovo tripudio di virtuosismo, un finale di bravura per mandare in visibilio gli spettatori; e anche qui subentra un inatteso colpo di teatro. Musica ricercata n. 4 di Gyorgy Ligeti, di fatto un valzer disorientante, è il brano con cui il nostro interprete sceglie di congedarsi dal suo pubblico. È altamente probabile che molti di quanti erano oggi pomeriggio a Palazzo Farnese, se non tutti, torneranno a sentire Samuele Telari, e comunque avranno imparato ad apprezzare il valore del Bayan o Fisarmonica come strumento d’arte vero e proprio.

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