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La genesi dell’Eroica

di Filippo Simonelli - 1 Febbraio 2016

Vita, morte e miracoli della Terza di Beethoven

La casa viennese in cui Beethoven compose la sinfonia Eroica è una costruzione di due piani lunga e bassa, un grigio avamposto della città imperiale sulla soglia dei suoi amabili declivi e le colline ondulate punteggiate dalle locande e dalle “Stuben” dove ancora oggi si gusta un mosto delizioso e frizzantino.
La strada si chiama Doeblingstrasse e all’inizio dell’Ottocento doveva sembrare poco più di un tratturo, un sentiero per le lunghe camminate che il genio di Bonn si concedeva per rilassarsi, immerso nella solitudine della sordità incipiente, quell’infermità inconfessabile che pregiudicava da alcuni anni il suo rapporto con il mondo, amici, protettori, allievi, la luccicante mondanità viennese con i suoi riti borghesi.
Siamo nell’autunno del 1803. Un anno è passato da quello precedente, l’autunno della disperazione, sugellato nel celebre Testamento di Heiligenstadt: Beethoven lo scrive come sentendosi in punto di morte. Una sensazione chiara, che trapela nitida pur tra le inevitabili iperboli e il
pathos già tutto protoromantico. L’artista, rivolgendosi ai fratelli, ma sottintenendo l’umanità intera, lamenta la sua sorte, spiega la sua intrattabilità e la scontrosità addebitandola a quel male diagnosticato facilmente ma sul quale senza successo si sono esercitati i medici più quotati dell’epoca. Un male che nell”orecchio come una beffarda metonimia colpisce l’uomo intero, musicista integrale come nessuno in precedenza

Il testamento di Heiligenstadt

“Nato con un temperamento ardente e vivace, persino aperto alle distrazioni della vita sociale, ho dovuto presto isolarmi, vivere in solitudine, ogni tanto ho ben cercato di superare tutto ciò, ma l’esperienza doppiamente mortificante del mio cattivo udito mi ha duramente richiamato alla realtà, come avrei infatti potuto dire agli uomini: parlate più forte, gridate, perché sono sordo, come poter confessare la debolezza di un senso che dovrei possedere molto più degli altri, un senso che un tempo possedevo in realtà al più alto grado di perfezione
(…)”

Questa sensazione, la percezione di un’inguaribilità che lo
andava a menomare nella sua dignità umana oltre che nell’approccio
professionale alla sua materia spinge più volte il giovane Ludwig a contemplare
una decisione fatale

“che umiliazione quando qualcuno accanto a me
udiva di lontano il suono di un flauto e io nulla o qualcuno udiva un pastore
cantare e io sempre nulla, questi fatti mi portavano al limite della
disperazione e poco ci mancò che non mi togliessi la vita solo l’arte mi ha
trattenuto dal farlo; mi è parso impossibile lasciare questo mondo prima di
avere pienamente realizzato ciò di cui mi sentivo capace, così ho prolungato
questa vita miserabile -veramente miserabile, un corpo così sensibile che
qualsiasi cambiamento un po’ brusco può trasformare il mio stato di salute da
ottimo a pessimo – pazienza -proprio così, devo sceglierla come guida, così ho
fatto, spero che questa mia risoluzione resista finché le inesorabili parche
vorranno spezzare il filo, forse andrà meglio, forse no, sono preparato – a
ventott”anni essere costretto a diventare filosofo non è facile, per un artista
è ancora più duro che per qualsiasi altro uomo.(…)”

Costretto a “diventare filosofo” da ragazzo, ad apprendere come conciliare la durezza della vita con la forza dei sogni: ed è ancora più commovente leggere le ultime righe nelle quali l’artista rivela il senso profondo della missione della sua arte e del suo vivere aprendo totalmente il cuore ai fratelli ai quali, come detto, lo scritto è destinato

“sarei  molto felice di potervi essere utile anche nella tomba – così fosse – con gioia vado incontro alla morte – ma se essa mi coglierà prima che abbia avuto
occasione di sviluppare interamente i miei talenti artistici, sarebbe per me,
malgrado il mio duro destino, troppo presto e vorrei che venisse più tardi – e
tuttavia sarei contento lo stesso, non meriterebbe forse da uno stato di
infinita sofferenza? – Vieni quando vuoi, ti vado intrepidamente incontro –
addio, non dimenticatemi completamente quando sarò morto, me lo sono meritato perché nella mia vita ho spesso pensato di rendervi felici,
siatelo.”

Nel volgere di un anno però abbiamo ora di fronte un altro uomo. Creativo, devoto, sottomesso alla sua musa come avrebbero detto i contemporanei, affascinati da quel carisma inafferrabile. L’uomo che ha pronunciato in qualche modo un sì, rivolto perfino alla malattia e alla sofferenza. Un uomo che, scontratosi con la realtà, evade dalla prigione dell’infermità per affermare la propria persona e il proprio compito, il destino al quale si sente chiamato.

È l’uomo che ora sta componendo l’Eroica, la musica che ha cambiato la musica, il testo di fronte al quale tutte le iperboli anche oggi sono permesse, il testo che non si fa la figura dei dilettanti a definirlo inaudito, perché tutto quello che era stato scritto fino ad allora, compreso il celestiale e algebrico Bach, compreso anche Mozart, il cigno di Salisburgo, era un’altra cosa.

L’Eroica

Composta tra il 1803 e il 1804 e rappresentata pubblicamente per la prima volta a Vienna il 7 aprile del 1805, la Sinfonia numero Tre in Mi bemolle maggiore di Ludwig van Beethoven consta canonicamente di 4 movimenti. L’allegro iniziale, la Marcia funebre, lo Scherzo e il Finale in forma di variazioni. La sua eccezionalità sta anzitutto nella lunghezza: 1853 misure per una durata media di circa 55 minuti. Per capire la sproporzione rispetto alle opere precedenti basti pensare che i movimenti iniziali delle ultime tre sinfonie di Mozart durano in media quanto la sola esposizione e lo sviluppo del primo tempo dell’Eroica, nonostante il suo primo tema sia tutt’altro che fluviale, ridotto così com’è ad una semplice affermazione dell’accordo iniziale che viene percorso dal basso in alto e viceversa.
Eccolo allora l’altro elemento di sconcertante novità dell’Eroica: il primato assoluto del ritmo. Il movimento non si concede pause, le cellule ritmiche che portano come in braccio la melodia si susseguono e si avvicendano dando al discorso musicale un impulso rettilineo, fluido e incontenibile. Come accadrà più volte nelle invenzioni di Beethoven è questo ritmo a conferire un”organicità peculiare alla composizione. E lo notiamo proprio in questo movimento dove si produce in continuazione dinamismo, un dinamismo che genera pensieri musicali in maniera consequenziale ma talmente vorticosa, che i contemporanei parlarono di “accumulo di idee colossali, privo di un contorno adeguato”. Un giudizio riportato dall’amico Georg Griesinger in una lettera indirizzata all”editore Breitkopf in cui riferisce le reazioni a caldo del pubblico di una delle prime rappresentazioni. L’ignoto detrattore
aveva suo malgrado perfettamente centrato il carattere rivoluzionario del movimento: “l’accumulo”, cioè questa spinta progressiva che genera quasi naturalmente” idee su idee, che sono propriamente colossali in quanto i contrasti tra gli elementi sono volutamente esasperati, la tensione è continua, il tessuto musicale si inarca senza spezzarsi in virtù della forza unificante del ritmo, proprio quel ritmo che animando la spinta della musica la contiene assieme in un gioco di contrappesi perfetti, un gioco forse mai più ripetuto da
nessuno a questo livello di perfezione, limpidezza, sorprendente ragionevolezza. Eppure pochi contemporanei avevano capito questa straordinarietà prigionieri com’erano di una sorta di bon ton delle dimensioni
di un concerto. Così si esprimeva il recensore della Allgemeine Musikalische Zeitung, all’indomani della prima viennese
“in ogni caso questo nuovo lavoro di Beethoven possiede grandi e audaci idee (…) ma il tutto guadagnerebbe se l”autore si decidesse ad abbreviare la sinfonia che dura quasi un’ora (sic!) introducendovi maggior leggerezza chiarezza ed unità…”
Cambiando latitudine però Beethoven trovò pubblici migliori e più disposti alla sua sfida. A Lipsia, nell’inverno del 1807 dopo una coinvolgente prima esecuzione il pubblico chiese a gran voce una replica che venne eseguita ad appena una settimana di distanza.
La sala della Gewandhaus si confermava così come il vero tempio della musica nuova.

Una sinfonia per Napoleone?

Il racconto è ultranoto. Alla notizia della sua autoproclamazione ad imperatore, Beethoven cancella dal manoscritto la dedica a Napoleone nell”indignazione di vedere così ancora una volta traditi quegli ideali di uguaglianza e fraternità che mezza Europa aveva visto impersonati dal grande Corso.

Un racconto che si sostanzia di un dato di fatto: il manoscritto che possediamo della sinfonia reca infatti tracce dell’avvenuto, così come peraltro la narrazione del fatto viene riportata da Ferdinand Ries, discepolo dell’artista che nel 1838, quindi ad appena undici anni dalla morte di Beethoven, redasse delle “Biographische Notizen” sul Maestro. Un racconto “a caldo” che diede il la
all”interpretazione. E c’è anche di più. Un altro biografo della prima ora, Anton Schindler, ricorda come un ambasciatore francese alla corte viennese avesse messo in giro in precedenza la voce che Beethoven avrebbe dedicato una sinfonia a Napoleone e che egli stesso sarebbe stato il tramite per fare avere la partitura all”imperatore in persona. Anche se i dati storici della permanenza dell’ambasciatore non collimano perfettamente con le date della
gestazione dell’Eroica, il racconto spiega quanto fosse viva la percezione di un diretto rapporto tra la terza sinfonia e le gesta di Bonaparte. Maynard Solomon, altro biografo di Beethoven si spinge molto più in la e afferma che
Beethoven considerasse in realtà l’idea di trasferirsi a Parigi e la dedica all’Imperatore voleva essere un viatico, una captatio benevolentiae nei confronti suoi e del suo nuovo pubblico. Guardando le cose a due secoli di distanza e con la percezione di avere comunque in mano uno dei capolavori della storia della musica, la questione della dedica ci interessa in realtà assai poco. Quello che invece conta è che l’idea di comporre un “omaggio” ad una personalità della storia a lui contemporanea attraverso mezzi squisitamente musicali è una delle prime manifestazione di una concezione, questa sì veramente
rivoluzionaria, che Beethoven stava maturando e che negli anni avrebbe più volte esplicitato.

L’ idea poetica alla base della musica

Nel 1802, poco prima di scrivere il testamento, Beethoven aveva confidato all’amico Krumpholz di voler trovare una “nuova strada” per la sua musica. Quello che aveva composto finora lo soddisfaceva fino a un certo punto. E non era cosa da poco, L’artista aveva già messo in cascina due sinfonie, tre concerti per pianoforte e orchestra oltre ad alcuni notevoli lavori di musica da camera.

Qual era dunque questa “nuova strada”? La risposta sta nella diversa temperie culturale che Beethoven respirava nella sua epoca e che veniva perfezionata proprio in quegli anni nel cosiddetto primo romanticismo tedesco,
quello del circolo di Jena che aveva nei fratelli Friedrich e Wilhelm Schlegel i maggiori teorici e in Novalis il suo “braccio poetico”. In sostanza l’arte – e poesia e musica in particolare – veniva vista non più come intrattenimento o nobile imitazione della natura o accompagnamento e commento di altre attività umane, ma come forma più profonda di conoscenza della realtà. In un celebre frammento Novalis spiega come la poesia “vede l’invisibile, sente il non sensibile e rappresenta l’irrappresentabile”, qualcosa del genere anche nella prosaica Inghilterra avevano affermato i poeti Wordsworth e Coleridge nel 1798 nella prefazione alle Lyrical Ballads, corpus poetico veramente rivoluzionario per la letteratura in lingua inglese. Di lì a poco E.T.A. Hoffman e Wilhelm Heinrich Wackenroder avrebbero scritto racconti e definito filosoficamente il ruolo della musica nell’esprimere l’ineffabilità e nel dare corpo all’aspirazione umana all’infinito e alla trascendenza. Insomma la musica assieme alla poesia diventava il viatico per “sprofondare lo sguardo nell’anima
del vasto mondo” come poeticamente delineato nel prologo di Novalis al suo romanzo incompiuto l’Enrico di Ofterdingen, dove peraltro la musica ha un ruolo determinante.
Beethoven così traduce nella sua musica che resta nella forma assolutamente classica questo metodo, utilizzando i sentimenti e le passioni umane in una nuova chiave. Non più come sensazioni da commentare in musica , ma come materiale, come sostanza da assimilare nella mente e nel cuore per poi riprodurre attraverso mezzi intimamente musicali. Non una musica degli affetti, dunque, ma una musica che sottomette alle sue leggi l’umano per eternizzarne i caratteri nel mondo astratto dei suoni.

“soggetti caratteri affetti non sono il fine ma sono il materiale la materia grezza la creta con la quale l’artista plasma e rende una forma materiale che va sottomessa alla legge della musica”.

Così spiega il metodo beethoveniano Carl Dalhaus nel suo fondamentale “La Musica dell’Ottocento” chiarendo come per idea poetica si intenda il fatto che la musica con Beethoven diventa finalmente trasmissione di un pensiero, una concezione etica tanto più forte e radicata quanto più accoglie la carica dei sentimenti per tradurla “oggettivamente” nella composizione che resta quindi legata alle sue leggi tecniche e teoriche. Come dire che la musica si ricarica di passioni umane senza cedere alla retorica o alla citazione diretta – qualcosa che avveniva, per fare un esempio molto popolare, nelle Stagioni di Vivaldi – ma sublimandole una volta per sempre nel suo mondo di
suoni. L’Eroica non cita fanfare e canti rivoluzionari non ci fa sentire echi del campo di battaglia, ma attraverso il suo ritmo coinvolgente, la sua timbrica particolare, il dinamismo nervoso del suo andamento ci fa percepire la psicologia, la sensazione profonda di una sfida tormentosa ma vincente dell’animo umano.

Saverio Simonelli

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