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Incontrare Wagner a Palermo, al crepuscolo degli dei

di Filippo Simonelli - 2 Febbraio 2016

Le nostre impressioni del Crepuscolo palermitano

Era il 13 gennaio 1882 quando Richard Wagner, ormai quasi settantenne, posò la penna dalla partitura del Parsifal, il suo ultimo capolavoro. Si trovava nelle stanze del Grand Hotel Des Palmes, a Palermo. La città siciliana, da quel giorno, non l’ha più dimenticato.

Il compositore di Lipsia era arrivato in Sicilia l’anno precedente, alla ricerca della pace necessaria per completare quel Parsifal in gestazione da quasi trent’anni. Ma Palermo non fu soltanto una pensione per Wagner: le cronache del tempo ci narrano di un Wagner ammirato dai monumenti panormiti, forse anche affascinato dal sincretismo religioso che anch’egli stava sperimentando nella mistica di Parsifal. Già in gioventù aveva mostrato interesse per la città, ambientandovi parte del giovanile “Liebsverbot“. E l’amore reciproco tra musicista e città è andato avanti ben oltre la morte del maestro, avvenuta nel 1883.

Lo si intuisce nella toponomastica, tant’è che accanto al Des Palmes si trova via Wagner, e nella ricca aneddotica che ancora si tramanda orgogliosamente del soggiorno wagneriano, secondo cui il compositore fu talmente irretito dalla città e dai suoi abitanti da aver distribuito regali sotto forma di bacchette da direzione e manoscritti originali, oggi sparsi chissà dove in uno dei tipici mercati del capoluogo siciliano. Ma soprattutto lo si intuisce nella vita artistica della città. Dal 2012 ad oggi il Teatro Massimo, massima istituzione musicale siciliana, ha allestito il Ring des Nibelungen per intero, nonostante le difficoltà che comporta una produzione così titanica. Il Götterdämemrung, ultimo capitolo della saga,  è andato in scena in apertura di questa stagione.

Il Crepuscolo degli Dei, questo è il nome italiano del Götterdämemrung, è la storia drammatica della morte di Sigfreid per mano di Hagen, e della caduta degli dei dal Valhalla. La resa scenica di Graham Vick ambientata ai giorni nostri in un contesto urbano decisamente disagiato, lascia di stucco lo spettatore. Se da un lato troviamo una resa brillante e quasi folcloristica che cattura lo spettatore per tutte le quattro ore anche grazie al sontuoso lavoro delle luci ideate e dirette da Giuseppe di Iorio, dall’altro genera profondi dubbi di natura filosofica sullo stato dell’arte e la resa ai giorni nostri di capolavori che sembrano essere appartenenti ad un’epoca sempre più distante dalla nostra, molto più di quanto gli annuari lascino intravedere.

Nella produzione del Massimo, enorme e magnifica come solo un Wagner può essere, Siegfried è giovanotto baldanzoso, vittima delle macchinazioni di Gunther e Hagen, che ritratti come due ricchi parvenues ricordano fin troppo da vicino due boss della malavita. La prima scena che ritrae Gunther e Gutrun sul letto in abiti discinti mentre fanno ripetutamente uso di cocaina è forse uno scadimento eccessivo nel cattivo gusto, ma suo malgrado rende perfettamente il contrasto tra i due ingenui fratelli e Hagen il macchinatore.  In questo contesto di generale degrado cui fanno dal contraltare le creature mitologiche , Norne e Valchirie, vestite di tutto punto come donne d’affari forse proprio per ribadire la distanza tra mondo terreno ed aldilà. Brunnhilde (Irène Theorin), in canottiera e leggins, ricorda molto da vicino una madre americana, una self-made woman in grado non solo di badare a se stessa ma di compiere le azioni risolutive (e incaute) che le spettano in questo finale drammatico. L’ingresso delle Norne è perfetto, mentre Christian Voigt (Siegfried) fatica un po’ ad ingranare: se la particolare corporatura fisica si addice perfettamente al protagonista un po’ gonzo che ha ideato Vick, l’ingresso a freddo lo penalizza leggermente nel primo atto. Il basso di Hagen, interpretato da Mats Almgren, invece, è possente fin dalle prime battute. L’azione scenica è soddisfacente, specie nella “battaglia” tra Siegfried, sotto le spoglie di Gunther e Brunnhilde. E fa riflettere il fatto che neppure una resa così modernista del dramma abbia potuto prescindere da alcuni oggetti scenici tipicamente medievali, come la cotta di maglia che indossa Siegfried per tramutarsi in Gunther e la stessa spada di cui è armato, che pure nel secondo atto della tetralogia era stata “progettata” dal nano Mime con un tablet.

Nel secondo atto incontriamo quello che paradossalmente è il personaggio più riuscito: Alberich, interpretato da Sergei Leiferkus. Il padre di Hagen, pur apparendo in scena soltanto per un breve momento, dalla sua carrozzina riesce a raffigurare perfettamente l’idealtipo di macchinatore che la parte Wagneriana gli assegna. Infatti è felice la scelta di rappresentarlo come un padre padrone dolcemente sospinto da un figlio non emancipato. Hagen, in realtà si rivela una pedina del disegno demiurgico del padre, e non per caso è rappresentato con le bretelle e abiti che danno una connotazione adolescenziale, per non dire infantile. Nel secondo atto le scene diventano ancora più caricaturali: i Ghibicunghi sono degli Hooligans veri e propri e la scena del doppio matrimonio tra Brunnhilde e Gunther e Gutrune e Siegfried, con tanto di paparazzi e fan urlanti in stile One Direction è molto border-line.

Il terzo ed ultimo atto inizia con una magnifica rappresentazione simbolica del fiume Reno, un susseguirsi di sedie trasparenti sotto cui si trovano dei mimi che ne imitano il fluire. Il tutto viene impreziosito dai giochi di luce che ne imitano il fluire regolare, alternando varie tonalità di azzurro. Le figlie del Reno sono una via di mezzo tra delle studentesse e delle cheerleader, e il loro rozzo tentativo di seduzione di Siegfried è un po’ stonato rispetto alla condizione semidivina in cui vivono, forse. Il punto più alto del climax drammatico, che riabilita definitvamente Christian Voigt, è quello del trapasso di Siegfried. Dopo aver subito il colpo mortale da Hagen, il protagonista vaga per alcuni istanti tra la vita e la morte: ed è proprio in quegli attimi che il tenore ci fa dimenticare il suo aspetto trasandato e dissacrante per ripristinare l’aspetto liturgico che ha questo momento come vertice della sua esistenza terrena, almeno all’interno del Ring. La scena finale con la pira funebre quasi sovrabbondante, che coinvolge persino l’impalcatura delle luci, è suggestiva ma forse poco drammatica, mentre l’esondazione del Reno e la fine ingloriosa di Hagen, e con essi il tanto atteso “Crepuscolo” degli dei e l’incendio mimato con dei finti candelotti illuminati sul ventre delle comparse sono un congedo all’altezza dell’opera.

Se la parte drammatica è promossa pur con qualche riserva nei punti più smaccatamente trash, l’orchestra è il vero protagonista delle oltre quattr’ore di rappresentazione, come è giusto che sia. Gli orchestrali, diretti dal placido Stefan Anton Reck, hanno plasmato la musica dotandola di vita propria, anche indipendente da quel che si svolgeva sulla scena per quanto possibile. Forse, a voler cercare il pelo nell’uovo si può dire che in alcuni passaggi il “fortissimo” degli ottoni è stato al di sopra delle voci dei cantanti. Ma questo non ha intaccato l’effetto generale, restituendo soprattutto in maniera fedele quella cura maniacale che aveva Wagner per le dinamiche di ciascuno strumento all’interno del “golfo mistico”, in modo che nessuno venisse mai privato della propria individualità caratteristica pur all’interno della massa sonora che la titanica orchestra wagneriana sa sprigionare. Forse proprio dal contrasto tra l’azione mimica così contemporanea e la compostezza eterna dell’orchestra si genera la vera meraviglia, segnando un altro punto a favore della produzione.

Il risultato finale è più che soddisfacente, senza dubbio. Eppure l’allestimento così attuale, la resa modernista del capolavoro genera non pochi interrogativi al musicista. Se infatti un fruitore dell’Opera, colto ma non strettamente musicista, va a teatro e si rivede anche volentieri in una realtà che tutto sommato può ritrovare nella propria vita quotidiana, chi vede nella creazione artistica un momento che vada oltre i semplici schemi della vita quotidiana ha qualche difficoltà. C’è probabilmente una duplice chiave di lettura per quest’opera.

Se infatti da un lato l’aspetto normale e quotidiano della sceneggiatura sembra in grado di nobilitare attraverso la musica quella stessa realtà meschina, dall’altro lato priva il “drama” wagneriano da quel pathos che lo stesso autore aveva dato alla sua opera. Se guardiamo al suo percorso artistico, notiamo come Wagner si sia affrancato mano a mano dalla contestualizzazione storica che era ricorrente nelle prime opere (come il Rienzi) concentrando la sua attenzione sull’aspetto mistico e sempiterno che la musica solamente può avere. Rendiamo omaggio dunque a Vick e a tutti coloro che hanno curato questa produzione per avere compiuto l’opera meritoria di aver avvicinato al Ring un pubblico così vasto (le prime due serate della rappresentazione hanno fatto quasi il tutto esaurito), ma la vera arte non si può accontentare di questo pur sontuoso progetto. In un contesto così normale, l’Opera perde la sua funzione catartica, diventando quasi un momento transitorio delle nostre giornate e dunque non c’è da sorprendersi se nelle sale da concerto in cui si trovino forunatamente dei giovani si moltiplicano le luci degli smartphone. Se persino gli orchestrali si concedono all’intervallo lo streaming della serie A, del resto non c’è nulla di cui biasimarli – ne i giovani ne tantomeno gli orchestrali. Bisognerebbe solo ricordarsi che la musica è al di sopra di tutto questo. L’opera d’arte totale, proprio quel Gesamtkunstwerk sognato da Wagner, non meriterebbe forse uno spazio tutto suo anche al giorno d’oggi, per poter essere se stesso a prescindere dalle mode e dalle esigenze di ciascun momento storico?

Filippo Simonelli

Fotografie di Arianna Cedrone


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