Perché iniziare una stagione con la Messe de Morts di Berlioz?
di Filippo Simonelli - 14 Ottobre 2019
nascita di una stagione
Scegliere la Grand Messe de Morts di Berlioz per inaugurare una stagione potrebbe, in prima battuta, non sembrare una scelta ben augurante. Ma sarebbe un’osservazione decisamente fuorviante, perché la Grand Messe in questione non condivide i toni più tristi e drammatici degli altri Requiem ad essa precedente. Si tratta piuttosto di un nascita di una stagione, una prova sul campo delle mirabilia orchestrali che lo stesso compositore francese avrebbe prospettato nel suo fortunato Manuale di Orchestrazione.
Un’altra, forse scontata, risposta alla domanda del titolo potrebbe darcela il calendario: quest’anno cade la ricorrenza dei 150 anni dalla sua morte, e molte istituzioni in tutto il mondo hanno scelto di omaggiarlo inserendo in cartellone i suoi titoli. Magari iniziare con un titolo più celebre, come la Sinfonia Fantastica sarebbe stato poco originale, e in definitiva, meno degno di nota. La Messe si incardina in un percorso di celebrazioni del musicista d’oltralpe iniziato dall’Accademia già dalla passata stagione e che proseguirà con altri suoi titoli nei concerti successivi. Questo era quello che senza dubbio si prestava di più ad una prima in grande stile.
La proposta messa in scena dall’Orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia è imponente: il palco della sala Santa Cecilia era gremito come non mai, con l’Orchestra di casa in tutto il suo splendore, il coro dell’Accademia e quello del Teatro San Carlo di Napoli tutto intorno e quattro sezioni di ottoni disperse nel retropalco, composte dai Professori dell’Orchestra e dai componenti della Banda della Polizia di Stato. Anche solo l’impatto visivo di questo gigantesco insieme è valso a giustificare la scelta dal punto di vista degli organizzatori: è altamente probabile che la prima produzione di ogni stagione attiri anche persone che non sono esperte di musica o frequentatori assidui delle sale da concerto, quelli che chiamiamo addetti ai lavori, ma che cercano un riconoscimento dello status symbol che la musica classica porta con sé, nel bene e nel male. Destare interesse e stupore in questo tipo di pubblico può aiutare a incuriosire se non addirittura, nei casi migliori, a fidelizzare. Piuttosto che optare per titoli scontati o attingere dal grande repertorio, una scelta di comodo, l’Accademia sta investendo da anni per aprire le proprie stagioni con produzioni pirotecniche ma al tempo stesso ricercate; al netto dei distinguo che spesso appartengono più al gusto personale di ciascuno, anche stavolta l’operazione può dirsi abbondantemente riuscita.
La musica
La Grand Messe de Morts è l’opera quinta del catalogo di Berlioz: composta nel 1837, potremmo considerarla un’opera giovanile, sebbene il compositore all’epoca avesse già superato i trent’anni. Ma è il suo approccio alla partitura ad essere decisamente maturo d’aspetto. La musica della Messe, che ricordiamo essere un Requiem sotto mentite spoglie, è frutto di una serie di scelte consapevoli attraverso una sinergia tra suggestioni musicali ed extramusicali che sarebbero state poi riprese in molti lavori futuri del compositore francese.
Berlioz aveva ereditato dai suoi maestri il senso di grandiosità e maestosità celebrativa della patria e della cultura francese che aveva permeato buona parte della produzione artistica post-rivoluzionaria, applicando poi questi concetti ad una vena orchestratrice indubbiamente fuori dal comune. Il testo del Requiem, pur rispettando in gran parte la lettera dell’originale, ne altera in maniera sostanziale il senso, anche in ragione di accostamenti arditi tra musica e parola. L’esito tuttavia non è sempre soddisfacente ed il lavoro in generale alterna momenti molto ispirati a tratti di puro spettacolo con poca sostanza di supporto.
Gli interpreti
Il lavoro svolto dai Maestri che hanno lavorato a questa produzione, con Pappano in testa, è stato volto a costruire e solidificare una coerenza nell’opera. Fusione perfettamente riuscita nel caso dei cori dell’Accademia e del San Carlo, mentre lo stesso non si può dire per le complesse alchimie che si sarebbero dovute generare tra gli ottoni della banda della Polizia e quella dei professori di Santa Cecilia. La strabordante fanfara del Tuba Mirum ha messo in luce alcune crepe nel dialogo tra le varie sezioni di Ottoni disposte ai lati e nel retropalco, che pur non risultando particolarmente deleterie per il buon esito e soprattutto per la spettacolarità di questo momento lo hanno reso senza dubbio imperfetto. L’Orchestra dell’Accademia è una macchina oramai perfettamente collaudata, e il lungo sodalizio con Antonio Pappano, fresco di rinnovo del contratto, è una garanzia di buon esito nei repertori più disparati. Il suono è massiccio e imponente nei momenti clou dell’opera, forse con qualche leggera incrinatura talvolta nella sezione dei fiati nei momenti in cui si assottiglia la dimensione dell’orchestra. Del momento più debole dell’insieme si è già detto, mentre una menzione particolare la merita il nono dei dieci tempi, il Sanctus, che lo stesso Direttore in prova ha descritto ai musicisti come l’unico vero momento di luce di tutta l’opera. Luce che si ritrova sia all’ingresso di Javier Camarena, tenore incaricato della parte solista, che è emerso dal retropalco a mo’ quasi di cherubino spingendo tutto il pubblico della platea con il naso all’insù, sia nella magnifica intersezione tra le voci e l’orchestra che si viene a creare nella fuga seguente sulle parole dell’Osanna; fuga che lo stesso Berlioz non prescrive come momento particolarmente espressivo o enfatico, ma che viene plasmata sapientemente dal direttore in modo da diventare una materia musicale quasi chiara e trasparente, traghettando l’ascoltatore verso il conclusivo Agnus Dei.
E quindi?
L’articolo si apre con una domanda nel titolo: perché scegliere questa opera per inaugurare una stagione? Tutte le risposte proposte fino ad ora sono piuttosto parziali. Provando a trovare una sintesi, si deve dire che anzitutto l’Accademia di Santa Cecilia è certamente l’unica istituzione a Roma, ma probabilmente tra le poche in tutta Italia, a potersi permettere una scelta del genere avendo una garanzia di buon esito. Il successo sul palco è cosa che oramai si può quasi dare per scontato, e bisogna veramente andare a scovare i dettagli più minuziosi per trovare qualche punto debole ed evitare recensioni trionfalistiche che lasciano decisamente il tempo che trovano. Ma il riscontro c’è stato anche in sala, con un pubblico attento e nutrito per tutte e tre le rappresentazioni, che sembra aver accolto con sincero entusiasmo questa proposta unica. Infine, la risposta che può dare un musicista, anche il più scettico nei confronti di Berlioz, è che questa musica offre un insegnamento profondo e duraturo: l’esplorazione dei limiti estremi delle possibilità di ciascuno strumento dell’orchestra compiuta dal Maestro francese che, giova ricordarlo, non ne padroneggiava nessuno con particolare perizia, è un’esortazione a continuare l’instancabile opera di ricerca che innerva tutta la produzione musicale dall’alba dei tempi.
Vi sembra poco?
Filippo Simonelli