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Questione di scelte: Emanuele Arciuli a Jesi

di Filippo Simonelli - 14 Agosto 2020

Un concerto fuori dal comune in un contesto ancor più fuori dal comune

Da circa ventiquattro anni trascorro parti considerevoli della mia estate nell’entroterra dell’anconetano, e da almeno una decina di anni mi interesso e mi dedico assiduamente alla musica classica; eppure in questo periodo di tempo, fatico a ricordare di aver trovato un concerto in queste terre, senza dovermi spostare in altre province come per il Rossini Opera Festival o il Macerata Opera Festival. Per questo scoprire, per puro caso, un concerto di Emanuele Arciuli in un luogo di Jesi – palazzo Pianetti – di cui avevo solo sentito parlare, è stata veramente una piacevolissima sorpresa. Nel contesto della rassegna cameristica itinerante “Armonie della sera” , il pianista ha offerto al pubblico della città pergolesiana una proposta musicale veramente fuori dal comune.

Un programma raffinato

Chi conosce il pianismo di Emanuele Arciuli sa che questo si contraddistingue per la ricercatezza del suono e uno studio timbrico fuori dal comune. Si potrebbe obiettare, tuttavia, che queste sono caratteristiche fondamentali per ogni buon pianista, di fatto imprescindibili per chi abbia il cuore di affrontare il repertorio contemporaneo per lo strumento. A questi fondamentali si accompagna però un gusto raro nella scelta, anzi nella composizione dei programmi che il Maestro porta nei suoi recital: il menù di Palazzo Pianetti prevedeva due immancabili composizioni di autori contemporanei, John Corigliano e Frederic Rzewski, inframezzate da brani di gusto più tradizionale, da Debussy a Nino Rota passando per Poulenc: tutti brani che seguono un’evoluzione stilistica, che a partire da Debussy ha innervato gran parte del repertorio americano delle origini, trasferendosi di autore in autore fino ai contemporanei che citavo poc’anzi.

Volendo speculare un po’ sulla scelta dell’ordine dei brani si può riscontrare persino una sorta di ricerca della circolarità: il primo e l’ultimo brano, Fantasia on an ostinato di Corigliano e Cotton Mill Blues di Rzewski, sono stati composti da autori americani viventi, anche se relativamente in là con gli anni. Il minutaggio delle due composizioni è simile, attorno alla decina di minuti, come simile è per certi versi la forma ad arco di memoria bartokiana ma rovesciata: a due estremi pulsanti e ritmici viene inframezzata una sezione centrale tranquilla – nel caso di Corigliano – o comunque lirica, come nel caso del vero e proprio blues di Rzewski che si lascia piacevolmente adagiare in mezzo ai blocchi di cluster che dovrebbero simulare, nelle intenzioni dell’autore, i rumori di una catena di montaggio.

I due gruppi di sei preludi, tratti rispettivamente dal primo libro di Debussy e dalla raccolta dei Quindici di Rota, ci permettono per le questioni numeriche di proseguire la nostra speculazione sulla forma-macro del concerto, ma all’interno delle due raccolte ciascun brano fa storia a sé sia a livello di linguaggio che di disegno formale. Al centro del programma una selezione di tre pezzi di Poulenc, altro autore francese che non si può probabilmente ascrivere con troppa leggerezza al novero dei seguaci di Debussy, ma che proprio per questo funge da ponte perfetto tra il maestro del – cosiddetto – impressionismo e il celebre compositore italiano, troppo a lungo ritenuto un grande musicista prestato al cinema che invece si è riuscito ad affermare anche con gusto, anche se inevitabilmente minor successo, nella cosiddetta musica assoluta.

Considerazioni sulla performance

Emanuele Arciuli è un pianista affermatissimo e che oramai ha veramente poco bisogno di presentazioni: il suo nome è diventato sinonimo di contemporanea, con un occhio di particolare riguardo per quel che è accaduto e accade al di là dell’atlantico, un repertorio che conosce a menadito, che suona regolarmente e di cui ha anche scritto molto in passato. Le sue incursioni in altra musica forse non sono esattamente il suo marchio di fabbrica: ma sono necessarie sia per contestualizzare gran parte della musica “che viene dopo”, sia probabilmente per evitare che alla specializzazione si accompagni una sorta di fossilizzazione delle scelte. Pericolo in ogni caso scampato, è giusto dirlo. Non solo, ma accanto alla musica “seria” non mancano occasionali passaggi nel repertorio del musical, come dimostra la scelta del bis tratto dal “Porgy and Bess” di Gershwin. Tutta questa premessa per dire che il concerto è stato all’altezza delle aspettative sia sul versante espressivo che su quello tecnico. Addirittura è stato impressionante vedere il concerto terminare con un vigore veramente sorprendente sulle note del Cotton Mill Blues, brano che richiede oltre che una tecnica pianistica fuori dal comune anche una notevole capacità di resistenza fisica vista lo sforzo richiesto; alle difficoltà intrinseche del programma si è aggiunta poi anche l’aggiunta della mancata climatizzazione della sala, tenuta con finestre e porte chiuse per favorire la registrazione del concerto che verrà poi trasmesso su Radio Tre, e che mi sento di consigliare di recuperare a chiunque abbia un minimo di curiosità.

L’esperienza del concerto

Merita qualche osservazione aggiuntiva, il contesto del concerto, a cui avevo accennato in apertura: Palazzo Pianetti è uno dei tanti gioielli nascosti del nostro paese che riesce sempre più sorprendentemente a rispettare i clichés della bellezza nascosta e da scoprire ogni volta nuova. L’accostamento tra il gusto barocco – quasi rococò – della galleria degli specchi in cui si è svolta la performance e le asperità del programma è sorprendente e merita una particolare lode all’organizzazione: in un contesto del genere sarebbe stato facile indulgere su musiche più tradizionali, repertori mainstream capaci di attirare maggiormente, almeno sulla carta, un grande pubblico, anche e soprattutto in un periodo di difficoltà in cui versano tutte le organizzazioni culturali. La scelta si è rivelata vincente, anche perché i posti a sedere, per quanto non tantissimi e necessariamente distanziati, erano pressoché interamente occupati.

Discutibile è stata la scelta di trasformare il rituale quarto d’ora accademico in una abbondante mezz’ora viste le condizioni climatiche non ottimali della sala, e una copertura pubblicitaria dell’evento non esattamente capillare: chi scrive probabilmente, pur risiedendo a pochi chilometri di distanza dalla sede dell’evento, non ne sarebbe stato a conoscenza se non fosse stata pubblicata una locandina dall’artista stesso. Per ironia della sorte, ho ricevuto delle sponsorizzazioni su Facebook solo a concerto terminato, quando la loro utilità era piuttosto nulla. Si potrebbe dire che entrambe non sono questioni di sostanza rispetto al concerto vero e proprio: affermazione con la quale mi sento di essere in disaccordo per due motivi. In primo luogo perché un’attesa così lunga rischia di compromettere parte dell’”esperienza del concerto”; un appassionato può anche soprassedere, sapendo cosa ci si può aspettare da un programma del genere e venendo prontamente ripagato, ma chi magari è neofita o semplicemente sceglie di seguire un concerto per pura curiosità o anche per ragioni di status symbol legate ai luoghi comuni della musica classica rischia di averne un’impressione compromessa, specie in un concerto serale in cui l’attenzione è inevitabilmente declinante. Perché non riempire l’attesa, allora, con una vera e propria guida all’ascolto, spesso necessaria per aprire le porte del programma ad ogni ascoltatore, o, vista la bellezza del luogo, con un minimo di spiegazione e contestualizzazione del gioiello in cui ci si trova?

Inoltre, e veniamo al secondo ed ultimo punto, la musica d’estate, soprattutto in location turistiche, può attirare un pubblico nuovo oltre a quello degli affezionati di questa o quella istituzione. Un po’ di coraggio a livello di promozione e diffusione, anche tramite i canali social, si dimostra ogni giorno che passa più vitale per valorizzare parte di quel patrimonio di cui andiamo fieri ma che avrebbe bisogno, ogni tanto, di una spintarella in più. Anche e soprattutto perché ci sono casi, come questo, in cui ne vale veramente la pena.

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