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I social network hanno cambiato il mestiere di musicista?

di Filippo Simonelli - 14 Febbraio 2017

Quando nel 1931 fu interprellato da alcuni amici sul nascente fenomeno delle trasmissioni radiofoniche, Sergei Rachmaninov ebbe parole piuttosto dure. La radio, a suo dire avrebbe avuto “una pessima influenza sull’arte e distrutto o svenduto il vero significato della musica”. Tempo dopo mise insieme queste riflessioni assieme ad altre sull’utilizzo delle altre tecnologie all’epoca disponibili per un musicista, come registrazioni, incisioni e così via, per la rivista Gramophone.
Se il giudizio sul mezzo radiofonico è severo, lo strumento che loda di più è proprio il Grammofono, capace di restituire una perfetta fotografia “della personalità di ogni genio della musica, pur defunto”. Ma l’affermazione più interessante che fa si trova proprio sul finire dell’articolo (interamente reperibile qui), in cui afferma:

Formerly, the artist was haunted by the knowledge that with him his music also must vanish into the unknown. Yet to­day, he can leave behind him a faithful reproduction of his art, an eloquent and imperishable testimony to his life’s achievement. On this account alone, I think that the great majority of musicians and music­ lovers alike cannot hesitate to acclaim the gramophone as the most significant of modern musical inventions.

(In passato, l’artista era attanagliato dalla consapevolezza che la sua musica sarebbe dovuta scomparire con lui. Eppure oggi può lasciare dietro di sé una fedele riproduzione della sua arte, una eloquente ed immortale testimonianza del suo successo. Anche soltanto per questo credo che la grande maggioranza dei musicisti e degli amanti della musica non possono che acclamare il grammofono come l’innovazione più rilevante tra le moderne invenzioni musicali.)

Le innovazioni tecnologiche, in realtà, non hanno investito solamente il rapporto tra un musicista e la sua opera, ma anche il suo rapporto con il pubblico e il modo in cui vivere della propria professione.
Dopo più di settant’anni, e pur con una evoluzione tecnologica decisamente imprevedibile, è possibile trarre un bilancio del connubio tra musica e strumenti tecnologici?

In principio fu Napster

La possibilità di registrare, con una qualità crescente e con strumenti alla portata di tutti, ha avuto delle inevitabili conseguenze impreviste. Se poi combiniamo i due strumenti, ovvero quello in grado di registrare/riprodurre e quello in grado di diffondere il contenuto registrato, abbiamo una serie di fenomeni interessanti.
Quasi settant’anni dopo il famoso contributo di Rachmaninov per Gramophone, la commissione giudiziaria del Senato Statunitense tenne una delle audizioni più curiose della sua storia. A parlare fu infatti Lars Ulrich, batterista dei Metallica, intervenuto di fronte ad un comitato con una storia plurisecolare per denunciare i comportamenti illegali tenuti dagli utenti del sito Napster nei confronti della sua band. Sul sito, infatti, venivano distribuiti e ascoltati gratuitamente materiali che oggi diremmo piratati da concerti della band.
Il caso, divenuto poi materiale di studio per chi si occupa di battaglie per i diritti d’autore, ha radici lontane ma continua ad avere effetti ancora oggi. Napster è stata costretta dai Metallica e da altri artisti che hanno seguito la loro stessa strada a chiudere più di 200.000 account, con un conseguente rapido declino. Ma a Napster è subentrata una nuova serie di compagnie che sfruttando un principio più o meno simile al Peer-to-Peer, hanno spalancato la porta della diffusione globale della musica attraverso internet.

Vita da musicisti?

Se, parafrasando Rachmaninov, una delle preoccupazioni principali dei musicisti è quella di lasciare una propria eredità musicale dopo la dipartita, ci sono anche necessità più immediate che vanno affrontate tutti i giorni. Una di queste è quella di riuscire a vivere della propria arte.
Con la progressiva marginalizzazione dei musicisti di corte culminata tra il diciannovesimo e l’inizio del ventesimo secolo, la professione d’artista divenne sempre più malsicura. Alcuni si ingegnarono con professioni complementari: Schumann era un critico, Mendelssohn fondò un conservatorio, Ives faceva l’assicuratore, giusto per citarne alcuni. Ma altri decisero di non scendere a compromessi, come nel caso di Richard Strauss, che fu tra i primi ad occuparsi in maniera sistematica di diritti d’autore, con risultati considerevoli. Tutti i progressi conseguiti da lui e dai suoi omologhi (in Italia la SIAE, ad esempio) sono stati messi in discussione dalla cosiddetta quarta rivoluzione industriale. Numerose sono state le azioni intraprese dai musicisti da quella lontana audizione di Ulrich, motivate dal timore crescente, che di musica non si possa più vivere.
Le piattaforme che abbiamo menzionato sopra, Youtube soprattutto, hanno raccolto l’eredità di Napster amplificando però il fenomeno. Il sito di broadcasting ospita oggi una quantità di materiale che nessuna discoteca potrebbe mai, verosimilmente, contenere.
Se in questo modo è molto probabile che siano contenute le eredità musicali anche di personaggi che il grammofono non lo avrebbero mai potuto immaginare, è possibile che vengano infilati in questo gigantesco calderone anche brani di compositori viventi e che da tali brani potrebbero trarre profitti. E non tutti, ragionevolmente, la prendono in maniera troppo leggera.

La radice del problema, o della soluzione, o anche entrambe le cose

Lo scenario che appare di fronte, a questo punto, è dei più foschi, almeno in apparenza. Chiunque, dotato di un semplice telefonino con una connessione internet può registrare e mandare in onda un brano musicale nuovo, privando l’autore dei guadagni ad esso legati. Lo può diffondere su Youtube, facendolo arrivare in anticipo a migliaia di utenti e potenziali compratori, e così via. Ma allora i musicisti sono tutti sul lastrico, e non c’è soluzione?

Non esattamente. Nell’agosto del 2015 il Magazine del New York Times ha pubblicato un ricco approfondimento dedicato alla “Apocalisse Creativa” e all’impatto dei nuovi media sulla musica come professione, partendo proprio dal caso Metallica vs. Napster. Il risultato dell’inchiesta, condotta in un bacino ampio come quello americano, è bifronte. Da un lato è vero che la pirateria è un fenomeno in costante crescita (o meglio, lo era fino al 2015, anno in cui si è effettivamente registrato un nuovo aumento dopo più di un decennio della vendita discografica mondiale) ma questo non ha solo avuto impatti negativi sulla produzione musicale o sulla produzione culturale di qualità in generale:

The Napsterization of culture turned out to be less of a threat to prices than it initially appeared. Consumers spend less for recorded music, but more for live.  […] At the same time, there are now more ways to buy creative work, thanks to the proliferation of content-­delivery platforms. Practically every device consumers own is tempting them at all hours with new films or songs or shows to purchase […]

La napsterizzazione della cultura si è rivelata esseere meno minacciosa per i prezzi di quanto apparisse in principio. I consumatori spendono meno per la musica registrata, ma più per quella live. […] Al tempo stesso ci sono molti più modi di acquistare un prodotto creativo, grazie alla moltiplcazione di piattaforme che diffondono questi. All’incirca ogni dispositivo che i consumatori posseggono è una costante tentazione all’acquisto di nuovi film, brani o show di sorta […]

E questo non è il solo fattore di cambiamento. Per tornare all’ambito strettamente musicale, è interessante riportare quanto detto da Stefano Bollani in una intervista rilasciata a Rainews lo scorso 15 settembre. (disponibile qui)

“Ho deciso di chiamare alcuni musicisti nel mio gruppo perché li ho visti su Youtube, mentre un tempo avrei dovuto fare il giro di chissà quanti locali […] (con youtube) Cambia proprio (il rapporto a) livello professionale .”

In questo senso Youtube, o più in generale i social media, sono una vetrina per giovani musicisti desiderosi di mettersi in gioco. Ma basta tutto questo a rimettere in paro le cose? Forse no. Verosimilmente non siamo destinati ad accettare tacitamente che una persona registri il nostro concerto con il telefonino (non fosse altro per buona educazione), o ad accettare di dover caricare i nostri contenuti su una piattaforma gratuitamente con la sola speranza di essere pagati “in visibilità”. Il mercato ha già offerto una buona alternativa, tagliata su misura di musicista, che è Spotify, come prima era Soundcloud, con la quale superare le inadeguatezze di youtube e dei suoi sistemi di parternariato e dare una strada per i musicisti che della loro passione vogliono fare anche una professione. Ed esistono anche altri progetti che possono migliorare il nostro modo di fare, ascoltare e vivere la musica. Non è detto che questo sia, in astratto, una cosa positiva, ma è una questione che risiede interamente nelle nostre mani.
Chissà cosa ne penserebbe Rachmaninov di trovare le sue playlist su youtube? Magari, chissà, avrebbe rivalutato la radio.

Filippo Simonelli

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