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Le basi dell’opera da camera oggi: La bestia dentro di Leineri

di Filippo Simonelli - 9 Dicembre 2021

Comporre nel ventunesimo secolo obbliga sempre i compositori a confrontarsi con una tradizione stratificata sotto ogni punto di vista – formale, timbrico, di linguaggio e ancora e ancora. Questo incontro-scontro con il passato sempre più ingombrante ha imposto nel corso del tempo un adattamento dei modelli preesistenti a nuove esigenze che andavano dalle questioni stilistiche a quelle pratiche e logistiche. Sulla scia di questo flusso è nata per certi versi l’opera da camera, un po’ reazione ai fasti di fine Ottocento un po’ stratagemma per scavare nell’intimità dei personaggi in maniera più raccolta e personale.

Oggi l’opera da camera è diventata, assieme forse al melologo, un banco di prova ineludibile per i giovani compositori, non solo come preparazione a lavori futuri su più larga scala, ma anche per affrontare uno scavo psicologico nell’intimità dei personaggi che pochi altri generi offrono.

La bestia dentro di Francesco Leineri risponde a queste caratteristiche in maniera quasi paradigmatica. Nata nel 2019 per un progetto che potremmo definire underground – le Carrozzerie n.o.t., teatro a cavallo tra Testaccio e Porta Portese – La bestia dentro si appresta a vivere una nuova vita il 18 dicembre 2021 a Spazio Rossellini, sempre a Roma, in una nuova versione rivisitata e pubblicata dalla casa editrice Ermes404.

La storia che racconta è quella di Teresa, giovane protagonista che vive in una città in cui non sorge più il sole (!), in uno sfondo allucinantemente fiabesco. Pur nella brevità dell’atto unico Teresa incontra tre personaggi “generici”, che nel libretto di Martina Tiberti sono presentati senza nome, ma soprattutto compie un viaggio nella propria interiorità, come il titolo lascia intendere in maniera piuttosto esplicita. Ma di questo e molto altro abbiamo scelto di parlare direttamente con l’autore – nonché direttore dell’ensemble Musica Necessaria, incaricato della performance – per cercare di approfondire il processo creativo, gli aspetti interpretativi e tutte le sfide anche di carattere pratico che ci sono dietro ad uno sforzo creativo e produttivo del genere.

Partiamo dalle basi: come nasce l’idea di scrivere quest’opera?

Volevo approfondire i diversi elementi che negli anni di formazione mi avevano ricondotto sempre ad una ricerca superficiale sulle connessioni fra musica e narrazione. Giungere all’opera è stata una conseguenza molto naturale di certe mie attitudini nella questione compositiva. Anche l’approccio al mondo della direzione d’orchestra mi ha sensibilizzato molto all’interdipendenza fisica fra narrazione in partitura e tempi scenici, fra il racconto di una storia viva e lo scorrere della musica su carta.

L’opera lirica da camera è un genere che ha progressivamente preso piede a partire dalla seconda metà del Novecento: c’è qualche modello in particolare a cui hai guardato?

La scelta del modello cameristico è stata di tipo produttivo e non una velleità intellettuale. È un po’ come se avessi dovuto cucire a poco a poco sulla base delle circostanze, come è obbligatorio fare nel contemporaneo reale, e in un primo momento ovviamente non è stato facilissimo, soprattutto perché non ho avuto lasciapassare di alcun tipo. Ho scelto prima le persone che avessero bisogno di vivere questa necessità e poi la musica, invertendo la consuetudine mentale comune a molti di noi, trasformando la musica in soluzione al problema e non come problema in sé al quale bisogna porre soluzioni.

Fin dalla sua presentazione in copertina, c’è un forte accento sul libretto: com’è funzionato il tuo lavoro in tandem con l’autrice, Martina Tiberti?

Ho sempre creduto nel lavoro di squadra e Martina ha accolto i miei input fin dal nostro primo incontro. Poi ci siamo separati e ritrovati.

Ancora sull’interazione con il testo poetico: quanto della drammaturgia complessiva dell’opera risponde ad una tua idea pregressa e quanto invece è nato dall’incontro con il libretto?

Prima di relazionarmi con la librettista avevo letto molto sulla forza oscura che il desiderio esercita spesso sull’essere umano: da alcuni testi di psicoanalisi, a Leopardi, Mishima, Canetti e molti altri più o meno centrati, paralizzandomi infine come di fronte ad uno specchio. “L’animale ci guarda e noi siamo nudi davanti a lui”, scrive Derrida. Così, per attraversare questa paura e non subirla, farne una “animata pittura”, mi sono rivolto a Martina, che ha fatto suoi questi pensieri così come ho fatto poi io con il suo libretto: ha tradotto alcune mie domande nel suo lavoro, con sensibilità.

La vicenda di Teresa, la protagonista dell’opera ha un che di archetipico e universale: gli altri personaggi sono senza nome, non a caso, quasi a rappresentare dei personaggi tipo. C’è però un particolare che la connota in maniera inconfondibile: nella sua città non sorge più il sole. Come spiegheresti queste scelte simboliche?

Credo che la forza dell’opera di tradizione sia stata senza dubbio la capacità di parlare in modo semplice di questioni umane complesse e nel mio primo lavoro volevo rapportarmi a questo bagaglio socio-culturale. Certi simboli, situazioni, cliché del mondo operistico hanno dato da sempre la possibilità all’ascoltatore di spaziare dentro il suo, di emozionarsi, annoiarsi e inorridirsi: questa è una qualità storicamente determinante e costitutiva del linguaggio d’opera, che mi ha affascinato per molto tempo. Non è un caso che Sandro Cappelletto su Radio3 abbia parlato di Teresa in una puntata dedicata al mondo del Don Giovanni di Mozart e l’ho preso come un piccolo goal.

… E poi, come si fa a rendere una realtà così asfittica su una partitura?

Ho lavorato su uno stile molto denso e stratificato: è un’opera piena di musica, fitta di note e dettagli, nella quale convivono consonanze kitsch e dissonanze spaesanti. Ho distorto su più livelli gli aspetti ritmici, armonici e melodici di ogni scena – a volte anche quasi impercettibilmente – per descrivere un malessere celato nella vita rassicurante. Ho utilizzato un linguaggio che andasse sempre più sgretolandosi dall’inizio al termine dell’opera, senza che l’ascoltatore se ne potesse accorgere: volevo che potesse sprofondare con me dentro questa bulimia che nasconde lo spazio vuoto – la difficoltà di addentare la vita – ma con una delicatezza sofferta, senza sentirsi violentato.

Hai curato l’interpretazione della prima assoluta di quest’opera e salirai di nuovo sul podio il 18 dicembre. Come ti approcci ad una tua partitura? Pensi che cambierai qualcosa rispetto alle scelte originarie?

Ho un approccio alla direzione legato esclusivamente ai miei lavori e di tipo quasi “logistico”, organizzativo. D’altronde, il più delle volte, sei il primo che viene guardato dall’ensemble alla prima prova senza direttore, o peggio in studio di registrazione, e dunque ho cominciato a farlo solo perché mi era stato chiesto. Tornare su una partitura significa metabolizzarla, non tanto per modificarla quanto per aumentare proporzionalmente distanza e consapevolezza nei suoi confronti.

Ci sono particolari di qualsiasi tipo su cui suggeriresti ad un ascoltatore attento di soffermarsi per capire di più La bestia dentro?

Cercare la bestia. È ovunque, anche quando non sembra si manifesti.

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