Dove va la creatività? Intervista a Cristian Carrara
di Filippo Simonelli - 15 Ottobre 2020
Una lunga conversazione su musica contemporanea, creatività e organizzazione
Cristian Carrara fa parte di una generazione di compositori, oggi tutti attorno ai 40 anni, cresciuti in un periodo in cui la grande forza del messaggio artistico delle avanguardie si andava spegnendo per lasciare spazio ad un panorama assai variegato, che poi è quello attuale.
Se da un lato questa maggiore libertà creativa può sembrare – ed è – un pregio, dall’altro pone chi la musica la gestisce e la organizza di fronte a dei dilemmi non indifferenti su quale proporre al suo pubblico e come cercare di riavvicinarlo alle stagioni e ai teatri. Questi problemi Carrara li ha dovuti affrontare sia dal punto di vista creativo in quanto compositore, anche se il suo linguaggio denota una scelta artistica e “di campo” piuttosto chiara, sia dal punto di vista organizzativo, in quanto direttore artistico di una fondazione, la Pergolesi Spontini di Jesi, e ora in quanto coordinatore artistico nella direzione artistica allargata voluta da Daniele Rustioni alla guida dell’Orchestra della Regione Toscana. Le due visioni sono innegabilmente intersecate e fanno al tempo stesso dell’esperienza di Cristian Carrara un caso di studio sul lavoro del compositore oggi, sulle sue nuove responsabilità creative ed organizzative e sulla sua possibilità di incidere sulle abitudini del pubblico e sul modo in cui questo percepirà la musica di oggi. Questo insieme di sfide e complessità lo rende ancor di più un personaggio interessante da intervistare, ed è proprio sul doppio binario della sua carriera che incominciamo la nostra chiacchierata.
Vivere in due mondi
Come ti sei trovato nel passaggio dalla parte creativa a quella organizzativa?
La transizione tra questi due mondi è estremamente interessante, anzitutto perché la parte creativa non muore affatto. E poi in secondo luogo perché tocchi con mano, perché vedi da dentro e riesci a capire e immaginare bene il mondo dei direttori artistici e come si può fare a mettere in piedi quel che vorresti. D’altronde si vedono anche concretamente tutti i problemi che si possono dover affrontare, specie per quel che riguarda la musica d’oggi. È utile soprattutto per capire che i limiti sono tanti, e anche che le competenze richieste non sono più solo quelle creative. Il direttore artistico oggi deve essere oggi necessariamente un creativo, ma si deve sapere interfacciare col mondo della comunicazione, del marketing e chiaramente bisogna imparare a gestire le risorse che si hanno. Mi sono reso conto che non si tratta solo di programmare, di mettere in fila spettacoli: si tratta di dare un’idea narrativa, di come comunicarla, di quale o quali pubblici vuoi raggiungere e come farlo. Tutto questo progetto non rimane solo nella mente del direttore artistico ma è frutto dell’incontro con tutte le figure che lavorano all’interno della struttura.
E questo incrocio è abbastanza evidente vedendo come si sta sviluppando il progetto della Fondazione Pergolesi Spontini, sfruttando le differenze tra il festival e il programma del teatro di tradizione.
Abbiamo dovuto fare una scelta, ovvero quella di ripensare il festival anche per un target diverso. Abbiamo imparato soprattutto analizzando ogni singolo spettacolo, cercando di capirne il gradimento, il pubblico che è venuto: il paradosso è che ogni spettacolo del Festival fa storia a sé, e per quanto lo renda decisamente interessante, ma nell’ottica della programmazione ampia di un Festival rafforza sicuramente il teatro ma poi rende differenziato il lavoro per ciascuno di essi. Poi chiaramente, se ad ogni spettacolo partecipa un pubblico diverso, il nostro obiettivo deve essere quello di farli mescolare col tempo.
La stagione del Teatro segue un approccio un po’ diverso: ho avuto la fortuna di trovare una stagione lirica già molto seguita. Chiaramente quest’anno la stagione farà un po’ storia a sé, ma abbiamo deciso comunque di presentare opere in forma scenica. Faremo una prima mondiale in tempi moderni di un antesignano dell’intermezzo napoletano, Lesbina e Milo di Giuseppe Vignola, e poi c’è la commissione di un passo a due sulla suite italiana di Pulcinella di Stravinsky, che quest’anno compie cento anni. Pulcinella, con i suoi temi in gran parte pergolesiani era un omaggio più che dovuto. E poi c’è un’opera contemporanea di Marco Betta, il “Telefono” di Menotti con “La Serva Padrona” e una nuova produzione dell’Opera Circo, una creatura legata al mondo circense e delle acrobazie, ed anche questa contiene musica nuova che già l’anno scorso ha avuto un ottimo successo. È chiaramente particolare come stagione, ma abbiamo cercato di rispondere sia alle esigenze di un pubblico consolidato che ha bisogno di vedere in cartellone determinati titoli “sicuri”, sia però di riscoprire titoli meno noti, il tutto lavorando infine sulla musica d’oggi per riportarla ad essere giustamente al fianco dei titoli più celebri del repertorio.
È sicuramente più interessante far così che non riproporre un’ennesima Traviata, o Bohème per esempio…
In realtà la questione è più complessa: da compositore potrei anche essere d’accordo con te, ma da direttore artistico mi devo soffermare un attimo a pensare su alcune cose. Traviata e Bohème, per esempio, mi fanno fare due sold out, sono una certezza per il pubblico e magari aiutano anche a costruire il pubblico e ad avvicinarlo gradualmente verso la musica di oggi. Non dobbiamo abbassare la qualità, ma dobbiamo cercare di creare un prodotto fruibile per la maggior parte delle persone anche perché dietro ci sono realtà che investono soldi pubblici, cosa da non sottovalutare mai.
(nb chi scrive, nonostante un certo snobismo ostentato, deve ammettere non perderebbe mai la possibilità di andare a sentire dal vivo una Traviata o una Bohème, specie quest’ultima.)
La nuova musica: una visione
Ad ogni modo di musica nuova non ne è mancata in questo festival, fino ad ora.
Nella stagione precedente abbiamo avuto quattro nuove commissioni, in quella precedente su tredici spettacoli cinque ne contenevano di nuove. Anche nella stagione lirica c’è la nuova commissione per l’Opera Circo, che comunque è un’ora e un quarto di musica…
… e c’è anche Marco Betta quest’anno.
Ma quella non è una mia commissione, riprendo un’opera che fu prodotta quattro anni fa al Pavarotti di Modena.
A questo punto mi viene spontanea un’altra domanda: a forza di commissionare nuove opere, assommare prime assolute, non si riesce a creare un repertorio che attecchisca…
Non è proprio così: la filosofia che stiamo portando a teatro è quella di commissionare e di lavorare su progetti che siano potenzialmente rivendibili e si possa portare anche altrove.
Ad esempio, l’anno scorso abbiamo lanciato l’Opera Circo. L’abbiamo provata più volte perché dovevamo provare anche un nuovo format: è andata come andata, il pubblico ha risposto bene anche se c’erano alcune cose da sistemare. Quest’anno il nuovo format di Opera Circo è coprodotto con Novara e Rovigo, ed è un’opera grande. Sulle produzioni del Festival il modello è stato questo fin da subito: io non commissiono solo la partitura, ma cerco di immaginare un progetto che sia replicabile anche altrove. Prendendo un altro esempio dalla stagione di quest’anno, quando abbiamo iniziato ad immaginare la produzione su Raffaello, abbiamo messo in piedi un prodotto che avesse tantissime caratteristiche: un’ora di musica nuova pensata appositamente per il nostro Time Machine Ensemble, un sistema di animazioni in 3D con un visual designer, un testo commissionato ad hoc a Davide Rondoni e poi, ciliegina sulla torta, la presenza di Neri Marcorè. Questo è uno spettacolo che noi abbiamo e stiamo proponendo ad altre situazioni teatrali in Italia. L’idea è quella di creare dei prodotti che non solo funzionino, ma abbiano anche appeal. E appeal non vuol dire essere “commerciali”, non è una brutta parola. Guarda per esempio Machbettu, la produzione del Machbeth che lo scorso anno ha girato l’Italia e vinto tantissimi premi, non mi sembra una cosa commerciale eppure ha girato e continua a girare avendo un grande successo. La dimostrazione che una cosa del genere si può fare.
Naturalmente questo è un ragionamento che si può estendere a tutte le nostre attività anche creative, partendo dall’idea a monte che purtroppo ci sono delle diverse spendibilità dei nomi. Mozart è Mozart, Cristian Carrara è Cristian Carrara e i due mondi sono purtroppo imparagonabili, ma anche l’idea di Cristian Carrara può diventare interessante. O si trova un direttore o un’interprete capace di innamorarsi di una tua creazione e imporla in giro con la forza della sua fama, oppure occorre creare altre fonti di interesse che vadano anche oltre la musica. Nel campo della musica sinfonica, per esempio, c’è il discorso del solista o del direttore, ma nel teatro musicale si può prendere forza da un’idea o anche da un regista, da un soggetto di particolare importanza, o un’occasione particolare.
I giovani compositori dovrebbero tenere particolarmente da conto queste circostanze. Al giorno d’oggi non basta scrivere ed essere automaticamente un compositore, ma ci si chiede anche che cosa hai da dire e che progetto puoi proporre ad un direttore artistico, per rendere il tuo lavoro “utile” alla missione del teatro che lo produce. Anni fa proposi al teatro di Trieste un pezzo per le celebrazioni del disastro del Vajont, la terra da cui provengo e con cui ho un profondo legame familiare. È chiaro che la somma di tutti questi fattori aveva reso l’idea di una potenza comunicativa incredibilmente forte, al di là della qualità della musica, facendo diventare l’occasione un evento.
È molto meno speculativo rispetto all’approccio alla composizione di buona parte dei musicisti contemporanei.
Io parto da un principio “diverso”: per me la musica esiste se esiste un dialogo. Per esserci un dialogo occorre qualcuno che ascolta, altrimenti sarei poco più che un matto che parla da solo; e per scrivere occorre anche avere qualcosa da dire, non solo dal punto di vista del linguaggio musicale – che è fondamentale e sta alla radice, intendiamoci – ma anche che sia in grado di comunicare qualcosa alla vita delle persone. Se guardo alla Quarta Sinfonia di Brahms, al di là della genialità della scrittura, qualcosa di inarrivabile, vedo anche un messaggio, costruito su una serie di elementi come la citazione bachiana, le parole che aveva annotato. Voleva dire delle cose, in maniera più o meno esplicita.
Cristian Carrara racconta Cristian Carrara
Visto che stiamo toccando il tema del linguaggio in maniera implicita, affrontiamolo direttamente: c’è qualcosa che secondo te può rendere un brano di musica contemporanea oggi più interessante per il pubblico?
C’è da fare una premessa, positiva: oggi in Italia hanno cittadinanza più o meno tutti i linguaggi, cosa che non è sempre stata tale. Questo è un bene, perché così si arricchiscono tutti, da chi fa l’avanguardia sperimentale a chi lavora ai linguaggi più consonanti. Secondo me ciò che ha valore oggi è l’adesione del linguaggio del compositore al suo essere, ovvero per me conta di più l’autenticità che non l’originalità. Ti faccio un esempio semplice; se guardi un quadro, spesso sotto c’è una firma. Se dopo un po’ chi guarda riesce a riconoscere un tratto tipico di tanti quadri e ad associarlo sempre allo stesso autore, allora significa che si è generato un certo interesse. Non c’entra necessariamente con l’originalità, ma è un discorso di autenticità.
La prima obiezione che farei a questo discorso è legata al fatto che i tratti salienti di un autore possono cambiare nel tempo, basti pensare a Stravinsky…
Beh, certamente, ma nel corso del tempo è legittimo e anzi anche opportuno cambiare e cercare nel corso della propria ricerca. Tra le prime e le ultime opere Stravinsky ha cambiato ed esplorato più o meno tutti i linguaggi che si affacciavano all’orizzonte, ma rimaneva sempre qualche caratteristica forte, dal punto di vista timbrico, che ne rende i lavori sempre schiettamente stravinskiani. Lo stesso si può dire di Prokofiev, del suo modo di orchestrare per esempio, che tramite delle scelte coloristiche lo rende unico e simile solo a sé stesso, dalle prime alle ultime opere. Per rimanere in ambito russo, un’unità di firma si trova fortissima anche nei lavori di Shostakovich. Nonostante il progredire naturale del compositore, si riconoscono dei tratti comuni nei suoi lavori, un fine unico, in una parola quel che cerco di rappresentare come “firma”.
E dal punto di vista della tua ricerca artistica, se dovessi indicare una tua firma?
Non lo so! Il tratto comune a tutte le cose che ho scritto è il fatto che sono nate sempre da una riflessione non musicale. Ho sempre cercato di partire da riflessioni che fossero al di là della musica. Anche nella musica sinfonica ci sono stati sempre dei sottotesti, delle dediche, delle ricerche di mettere in musica senza parole cose che non sono esplicitamente espresse. La scintilla che mi porta a scrivere è sempre figlia di una riflessione su un tema ampio, umano per così dire.
Dal punto di vista del linguaggio chiaramente tendo di più verso la consonanza, anche se non tonale in realtà. Ma dal punto di vista della ricerca, soprattutto, cerco di fare un lavoro diverso: nel Novecento si è cercato di fare un gran lavoro di ricerca sul versante armonico, proseguendo un po’ il lavoro tipico anche dei secoli precedenti. La grande unità che lega la musica del periodo tonale fino alle avanguardie è anche la grande importanza data alla forma, che spesso e volentieri anche nei linguaggi più articolati si muoveva attorno a dei canoni classici. A me interessa tentare di capire se fosse possibile costruire un linguaggio formale che non necessariamente rispecchiasse i canoni tradizionali. Ho iniziato a lavorare su un modello che io chiamo flusso di coscienza: la forma non è data tanto da criteri oggettivi quanto da uno sviluppo di introspezione personale, come in un flusso vero e proprio. Poi intendiamoci, non è che non ci metta mano a posteriori dal punto di vista dell’architettura formale o dal punto di vista delle costruzioni armoniche in verticale, ma non mi metto a cercare l’adesione ad una forma precodificata o ad una successione armonica legata ai rapporti tonali che si instaurerebbero nell’armonia funzionale.
La cifra di contemporaneità del mio linguaggio quindi è forse questa: un linguaggio che pur restando sostanzialmente consonante abbia nella forma e nella scelta armonica un qualcosa di contemporaneo, che non aderisca alle regole e alle norme codificate in passato.
Con questi presupposti, quali sono i prossimi lavori o progetti che proverai ad affrontare?
Sto lavorando ad un’opera su Dante che dovrebbe debuttare a fine febbraio, Covid permettendo, a Novara. Si intitola rapimenti d’amore e anche qui è frutto, chiaramente, di una riflessione premusicale. Poi sto lavorando ad un pezzo per flauto e orchestra d’archi che si intitola Four Emotions, in cui vorrei fare un piccolo lavoro di ritratto in musica di ciascuna singola emozione. Se è vero che la musica trasferisce emozioni, vorrei provare a fare il processo inverso e a descriverli io stesso nelle pagine della mia partitura.