Tragedia e Memoria: La valse di Ravel
di Tiziano de Felice - 28 Gennaio 2021
Sul finire dell’anno 1919 il celebre impresario dei balletti russi Sergei Diaghilev, il quale aveva già commissionato a Maurice Ravel il balletto Daphnis et Chloe, chiese al compositore francese di scrivere un nuovo lavoro per la stagione dell’anno seguente. Anche se l’idea di scrivere una composizione in ‘stile viennese’ intitolata Wien (Vienna), un poema sinfonico che sarebbe dovuto essere un tributo a Johann Strauss e al valzer, era già un vecchio progetto di Ravel abbandonato anni prima, fu durante un periodo d’intenso lavoro creativo, ripresosi dai tragici eventi causati dalla Prima Guerra Mondiale, che egli scrisse e completò La valse, poème chorégraphique pour orchestre.
Ravel eseguì la versione per due pianoforti assieme alla pianista Marcelle Meyer davanti Diaghilev nella primavera del 1920. Tra i presenti c’era anche il compositore Francis Poulenc il quale, vedendo l’impresario russo giocherellare con il suo monocolo e sentendo il crepitio dei suoi denti, comprese fin da subito che le cose non si mettevano bene per il nuovo lavoro del maestro francese. Terminata l’esecuzione, il commento di Diaghilev fu alquanto severo: “È un capolavoro, ma non è un balletto. È il ritratto di un balletto.” Stando alle testimonianze Ravel a questo punto non fece altro che raccogliere il suo spartito e uscire senza dire una sola parola.
Curiosi aneddoti a parte, il lavoro fu comunque un successo a Vienna nella prima dell’autunno del 1920, quando Ravel e Alfredo Casella lo eseguirono nella versione per due pianoforti. Questa “impressione di un fantastico, fatale movimento roteante” come la chiamò il compositore, sembrava davvero essere concorde con l’atmosfera di Parigi nel dopoguerra, dove La valse fu eseguito il 20 dicembre dello stesso anno nella sua veste più celebre, quella orchestrale, diretta da Camille Chevillard con l’Orchestra Lamouraux. Il balletto fu invece presentato per la prima volta ad Anversa nel 1926. Ravel approvò la maggior parte delle coreografie rappresentate durante la sua vita, ma curiosamente mostrò opposizione a una messa in scena nel 1929, poiché erano state trascurate le indicazioni di tempo e luogo nella prefazione della partitura:
Ritmo di valzer viennese. Le nuvole alla deriva consentono una visione offuscata delle coppie danzanti. Mentre gradualmente le nuvole si disperdono vediamo un’enorme stanza riempita da una folla vorticosa. Quando il ritmo diventa chiaro, la scena diventa più luminosa, fino a quando la luce dei lampadari non esplode. Una corte imperiale, intorno al 1855. . .
Oggi La valse è regolarmente eseguito e nel repertorio stabile delle orchestre, essendo considerato uno dei più raffinati capolavori per l’orchestra moderna, per la maestria tecnica di Ravel e il suo raffinato impiego di un’incredibile varietà di colori e sonorità. Ma questa è anche musica che è stata in grado rivelare il teschio sogghignante nascosto sotto la profumata ‘pelle’ del piacere e decadenza della Vienna fin-de-siècle. Nel 1922 Ravel in una lettera si espresse così:
[…]alcune persone hanno scoperto in essa un’intenzione di parodia, anche di caricatura, altre chiaramente hanno visto un’allusione tragica – la fine del Secondo Impero, la condizione di Vienna dopo la guerra, etc […]. Tragico, sì, può essere tale, come qualsiasi espressione – di piacere, di felicità – che viene spinta all’estremo. Si dovrebbe vedere solo ciò che proviene dalla musica: un volume sonoro che incrementa, che nella performance sul palco sarà completato da luci e movimento.
Tuttavia, accettare la singolare percezione di Ravel di La valse come semplice prodotto della prerogativa del compositore può anche oscurare un’importante forza estetica dietro l’opera. E riguardo al cosa, se mai, significhi l’opera nella sua totalità, questa resta davvero una questione più complessa. Forse per il pubblico che aveva vissuto la guerra, La valse, anche in assenza di luci e coreografia, sembrava evocare inevitabilmente immagini di morte e distruzione. Eppure, questa chiave di lettura paradossalmente appare fin troppo chiara. Cos’altro può rivelare dunque La valse?
Struttura: ricordare un valzer
Con La valse Ravel adotta tecniche ed elementi che fanno si che il lavoro sia diverso dai modelli tradizionali del valzer. Ravel, infatti, utilizza elementi come la frammentazione e collage per distorcere gli elementi narrativi, la giustapposizione di piani o forme distinte per generare disorientamento con la sovrapposizione di trame musicali diverse. Nell’applicare tali tecniche, Ravel è stato in grado di manipolare la forma e le caratteristiche musicali dell’originale valzer viennese e di mutarlo, incarnando in esse l’estetica che rifletteva le tendenze artistiche del suo tempo.
La valse evoca il valzer in due modi: ricordandolo, ma anche assemblando e accrescendo le sue componenti musicali basilari. Questo processo pone molteplici parametri musicali in continuo sviluppo e comporta fenomeni come un elevarsi nella tessitura, un accumulo degli strumenti dell’orchestra, un aumento delle dinamiche e un consolidamento della struttura delle frasi, trasformando frammenti tematici in frasi che sono metricamente e tonalmente coerenti.
Si consideri l’inizio, che se da un lato risulta fluido e continuo all’ascolto, dall’altro può essere suddiviso in sei fasi distinte. Le prime quattro fasi si svolgono in rapida successione durante le battute di apertura con l’aggiunta di una nuova voce strumentale dell’orchestra che ne segna l’inizio. Ciò avviene con uno sfasamento costante a ogni livello, a distanza di tre o quattro battute, sottolineando la natura sistematica implementata in questo processo di genesi musicale. Ravel quindi inizia assegnando con un tremolo nel registro grave, ritmicamente e melodicamente indifferenziato. A battuta cinque entra la terza suddivisione dei contrabbassi, articolando il ritmo in pizzicato alla semiminima e introducendo una sottile sincope attraverso un accento agogico. A battuta nove sono introdotti invece la prima arpa e i timpani, per dare corpo al terzo tempo del ritmo in tre del valzer (precedentemente non marcato), introducendo contemporaneamente l’intervallo di ottava sia nell’armonia che nella melodia. Infine, entrano i fagotti che presentano un frammento del valzer. Così facendo Ravel sintetizza i tre stadi precedenti, incorporando la terza minore del primo strato, il ritmo del secondo e la trasposizione all’ottava del terzo. La quinta fase mantiene la continuità complessiva di questo processo trasformando il materiale della fase precedente.
Infine, avviene la conversione del frammento di valzer in una frase musicale completa. Ravel eleva il tutto a melodia, aggiungendo le viole per rendere l’insieme più lirico, ‘diatonicizzando’ l’armonia, espandendo il suo ritmo e infine allentando l’accompagnamento. Ma prima di procedere alla fase finale dell’esposizione, Ravel introduce un nuovo passo che fornisce la frase conseguente alla fine del secondo periodo. Subito dopo, Ravel orienta di nuovo l’introduzione richiamando un secondo frammento di valzer dalla quarta fase, ora trasformato in modo simile al primo frammento di valzer. Mentre questo tema si sviluppa, ci conduce dolcemente alla frase tutti in fortissimo della sezione successiva, la quale rappresenta la fase culminante di questo processo musical-mnemonico dell’incipit. Ora il passato musicale è presente concreto.
Mentre questo incipit passa alla sezione successiva (la ‘suite di valzer’), Ravel ‘riduce’ le dimensioni della sua orchestra. Ciò è evidente quando si ascolta l’oboe mentre esegue una delicata melodia sostenuta da un elegante accompagnamento di archi e strumenti a fiato. Il momento di allentamento della tensione, dove la musica del valzer è più libera e scorrevole, fa effettivamente capire a posteriori quanta ‘energia’ sia stata sfruttata per giungere fino a questo punto. Questo sforzo mette in luce non solo l’atto del ricordo o il recupero di informazioni dimenticate, ma è anche una lotta attiva della memoria contro l’oblio, che rende il passato inaccessibile. Metafora musicale del “così remiamo, barche controcorrente, risospinti senza sosta nel passato.” di Francis Scott Fitzgerald nella conclusione del Grande Gatsby. Ascoltatori eroici contro il tempo che scorre inesorabile, pronto a inghiottire per sempre i ricordi.
Il “vortice di nuvole” e la loro dissipazione intermittente avvengono durante una fase iniziale della cornice d’apertura e ‘l’illuminazione’ parziale e completa della sala da ballo descritta da Ravel coincide esattamente con una seconda fase, i cui limiti sono contrassegnati dalle lettere A e B nello spartito. Molti dei motivi dei valzer di questo blocco A ricorrono nella seconda sezione B, dove avviene la ripresa. Tuttavia, nella sezione B i temi ricorrenti del valzer vengono trasformati e distorti da Ravel per adattarsi a una scena più frenetica e uno stile più agitato. Lo scenario offerto da Ravel fornisce un contesto drammatico coerente per la musica: masse vorticose di persone che si spostano come nuvole. Uno scenario parziale, tuttavia, che non riesce a interpretare l’aspetto più impegnativo di La valse, ossia la fase conclusiva con la sua ripresa ampia e complessa di quasi tutto il materiale precedente.
L’improvvisa ripresa delle battute d’apertura termina bruscamente la suite di valzer, risvegliandoci così dalle nostre fantasticherie su questo passato idilliaco e strappandoci dal suo mondo sonoro borghese e confortante. Sebbene questa interruzione possa sembrare inaspettata, è stata prefigurata alcune battute prima. Il tempo, la dinamica e la densità strumentale incrementano, mentre i motivi subiscono uno stretto ritmico, le loro durate si contraggono da quattro battute a due, da due a uno e da una battuta a due tempi. Il climax preannunciato da questi eventi è quindi rinviato da l’interpolazione di un nuovo valzer. La nuova e pressante consapevolezza che la suite di valzer stia vivendo il tempo preso in prestito s’insinua nella musica, ricordandoci che il passato è presente solo nella memoria e minaccia costantemente di scivolare indietro nell’oblio; difficilmente può essere una coincidenza il fatto che Balanchine abbia introdotto in questo momento la figura della morte, portatrice di oblio, nella sua produzione di La valse del 1951. Poco dopo, la suite ‘crolla’, spingendo la musica a ricominciare. Come anticipato, la conclusione, che può essere chiamata una ripresa con coda, rivisita chiaramente i materiali precedenti ma non come ci si aspetterebbe.
Ascoltando La valse, è relativamente facile percepire i punti di articolazione formale su larga scala, tuttavia è molto più difficile tener conto delle sequenze di temi e motivi che ne seguono. La ripresa offre il miglior esempio di questa discrepanza: il ritorno delle battute d’apertura difficilmente non viene riconosciuto all’ascolto, mentre la successione motivico-tematica della chiusura che segue è ben più lunga e complessa.
Spirali, vortici e baccanali: forze dionisiache e il valzer come Gaia Scienza
Nelle sue battute conclusive e nella frammentazione del valzer, Ravel ci ricorda che il passato era presente solo nella memoria, non nella realtà. Come mai? Una possibile soluzione a questo enigma si può ritrovare nella concezione di Nietzsche del Dionisiaco e il veicolo per esso in La valse è la coreografia musicale del Baccanale.
La questione però rimane: quando avviene la transizione da valzer, ossia la danza del mondo civilizzato, al caos primitivo?
La concezione del valzer come una graduale intensificazione che culmina in una sorta di vortice orgiastico non è certo invenzione di Ravel; dal repertorio operistico e concertistico della seconda metà del diciannovesimo secolo ci sono già almeno tre scene di ballo che tentano di realizzare questa concezione esatta. Due di questi esempi ambientano la stessa scena del mito di Faust: il valzer finale dell’Atto II del Faust di Gounod (1859) e Tanz in der Dorfschule di Liszt (1860). In più bisogna tenere presente che elementi come la ripetizione e moto circolare della musica e i ritmi di danza hanno influenzato e plasmato la musica di Ravel almeno fin dalla sua Habanera del 1895.
Queste tendenze sono diventate parte integrante di una inconfondibile fisionomia musicale non appena Ravel è riuscito a renderle possibili in contesti musicali più ampi: differenziando le figure circolari e adiacenti funzionalmente le une alle altre e sviluppando concezioni formali che hanno adattato l’orientamento coreografico della musica. Una di queste concezioni formali, che può essere designata come la “spirale”, appare per la prima volta principalmente nei finali del terzo movimento della Sonatina (1905), Feria da la Rapsodie espagnole (1907), Scarbo di Gaspard de la nuit (1908), la Danse guerrière e Danse générale di entrambe le suite di Daphnis et Chloé (1912) e ancora, la Toccata da Le tombeau de Couperin (1917). Tutte queste composizioni tendono a muoversi con oscillazioni progressivamente più brevi ed intense, tendendo sempre più verso un climax prima della fine del brano poco prima della coda. La maggior parte delle composizioni si divide in due parti analoghe o combina i principi formali binari e ternari modificando gli aspetti dello sviluppo formale tradizionale con la ripresa e lo stretto in un’unica seconda parte coesa. La costruzione a spirale si manifesta principalmente nella seconda o terza parte di una brano: la prima parte è un’esposizione in quanto anticipa questo processo, che Ravel porterà al più alto livello di intensificazione solamente alla fine.
L’idea del baccanale come conclusione di un brano musicale era anche già presente come una sorta di formula nel repertorio balletti russi di Sergej Diaghilev, merito del celebre coreografo Mikhail Fokin. Ravel aveva collaborato con Fokin proprio durante la produzione di Daphnis et Chloé dove aveva introdotto una conclusione più movimentata ed elaborata rivedendo una sua prima bozza. Questo tipo di finale teoricamente inizia già a partire dalla ‘ripresa’ e sezione conclusiva di La valse, ove si avverte un chiaro cambio qualitativo nella musica, segnaposto che indica il passaggio dalla costruzione integrativa alla distruzione e decadimento, un mondo ideale dove regna l’estetica che cede ad uno crudele e decisamente reale. La ripresa nella seconda metà spoglia La valse della sua stabilità, un atto di critica la cui violenza e sovversione ben si adatta con una comprensione convenzionale del baccanale.
È meno ovvio, tuttavia, come la nostra interpretazione della chiusura baccanale interagirà con l’ermeneutica dominante della memoria. Rivolgendosi al concetto di Nietzsche di Dionisiaco de La nascita della Tragedia dallo Spirito della Musica (1872) è possibile anche capire almeno in superficie come questo tipo di conclusione si colleghi con il mondo dei ricordi e la memoria. Si prenda in considerazione il Dionisiaco e la sua controparte, l’Apollineo. Quest’ultimo è una rappresentazione di bellezza, forma, identità individuale, moderazione e conoscenza di sé. Il Dionisiaco è invece associato all’istinto, vitalità e immediatezza, massa e mancanza di forma, tragedia, estasi ed eccesso. La dicotomia sfocia naturalmente anche nel campo della memoria, per cui l’Apollineo si diletta tanto nel preservare il passato quanto il Dionisiaco nel annullarlo, rimuovendo tutti i suoi obblighi per vivere pienamente nel presente. Tuttavia, come dimostra Nietzsche, nonostante il riconoscimento della storia come una tragica danza della morte, il Dionisiaco non si ritira nel lutto e nella malinconia, ma celebra piuttosto la distruzione come principio e conseguenza della vita. È così che si dovrebbe vedere dunque la transizione e la ripresa in La valse: dal punto di vista dell’estetica nietzscheana e come un movimento da l’Apollineo al Dionisiaco. All’inizio, un presente carente viene riscattato da un progetto Apollineo: la graduale ricreazione del glorioso passato nella memoria. Così facendo Ravel descrive il riemergere del passato come un fenomeno totalmente coreografico.
Successivamente, la suite elabora quest’estetica con una processione ordinata di temi simmetrici. Ma nella fase conclusiva Ravel riprende del materiale precedente solo per esporlo alle forze del rapimento e dell’oblio: mentre il valzer è stato ricordato con gioia nella fase di apertura, qui è tragicamente (in senso dionisiaco) disintegrato e dimenticato. Questo spiega retroattivamente un’affermazione di Carl Emil Schorske secondo cui Ravel, con la sua frenetica conclusione, dipinge un ritratto per antonomasia dell’uomo psicologico di fine secolo, servo dell’istinto piuttosto che della sua ragione. Il finale di Ravel è sia tragico che estatico, dionisiaco nel senso nietzscheano della parola e il tutto concepito sotto l’ombrello della memoria.
Memoria e decadentismo
Alla Ricerca del Tempo Perduto potrebbe fornire altri indizi per comprendere meglio la portata di questa composizione di Ravel. Il poderoso romanzo di Proust non solo presenta una meditazione profonda sulla memoria ma esso è anche punto di riferimento della letteratura decadente, sottolineando tutte quelle qualità che hanno contribuito a rendere la memoria un argomento così avvincente. Confrontando Proust e Ravel, si può osservare un orientamento comune non solo verso la memoria ma anche l’estetismo e il pastiche – entrambi parte dell’eredità decadente. È stato Theodor Adorno a sottolineare in un suo saggio (Moment Musicaux) che entrambi trattavano l’oggetto del desiderio attraverso la sublimazione, ossia ponendolo a distanza e idealizzandolo.
Con La valse Ravel vuol rappresentare il valzer come un oggetto distante nella memoria, un artefatto che è disponibile per il presente solo dopo essere stato richiamato dal passato. Nella prospettiva decadente, l’obsolescenza della tradizione e una crescente preoccupazione per la psiche individuale non sono semplicemente motivo di lamento, ma spronano anche la creazione di nuovi rapporti tra passato e presente, dando a ciascuno valenza propria. Il grado di discontinuità tra i due dipende dalla loro distanza temporale e dalla differenza qualitativa l’una dall’altra; in generale, più il passato è distante dal presente e più si distingue nitidamente la sua memoria sullo sfondo del presente, e maggiore è il suo potenziale di influenza nel presente.
Un esempio noto di questo sistema di valori è la dicotomia della memoria “volontaria” e “involontaria” delineata da Proust nel suo romanzo, per cui una memoria involontaria contrasta con una memoria volontaria nella misura in cui la prima è nascosta dalla volontà cosciente ed evocata dalla sensazione piuttosto che dall’intelletto. I ricordi involontari sono come scosse che entrano attraverso il corpo e fanno emergere il ricordo dall’oblio. La memoria involontaria mette quindi in scena lo scenario decadente per eccellenza: non solo lo sguardo del soggetto è rivolto verso l’interno e indietro nel passato, ma possiede così tanta carica che finisce per agire come un potente stimolo.
L’ultimo sguardo
L’inizio di La valse è perciò rivitalizzazione virtuale nella memoria, mentre la sua conclusione ricorda tutto ancora una volta solo per smantellarlo estaticamente in una frenesia baccanale. Il momentaneo ricordo naturalmente si riferisce al breve ‘stacco’ dell’attività dell’orchestra verso la fine, che si potrebbe definire come un ‘ultimo sguardo’ il quale, volgendosi all’indietro, allevia per un istante la dialettica della memoria. Nello specifico si parla di quando il movimento dell’orchestra viene improvvisamente e brevemente sospeso, consentendo a un piccolo insieme di fiati e archi di suonare due battute del delicato valzer che originariamente aveva aperto le danze, prima che la musica riprenda da dove si era interrotta verso la sua travolgente conclusione. Quest’ultimo ironico sguardo musicale ha un non-so-che di nostalgico: è forse l’ironico sorriso di Ravel mentre ci spia da dietro le sue note? Dal punto di vista della festa dionisiaca, questa retrospettiva è solo una breve distrazione. Per l’individuo apollineo tuttavia – colui che è pieno di riverenza e desiderio per il passato – evoca un’intensa malinconia e, per contrasto, par mostrare che la reminiscenza e il sognare ad occhi aperti non hanno posto in una realtà brutale.
Nel ripudiare le interpretazioni di La valse come una lotta tra la vita e la morte, Ravel ha compiuto una sorta di allontanamento dalle generazioni di critici e di pubblico, che sono entrati in contatto con il lavoro attraverso il vocabolario del conflitto. È facile, e talvolta utile, respingere il commento del compositore sulle sue opere come un giudizio miope, eccessivamente soggettivo o irrilevante per l’esperienza del pubblico che interagisce con l’opera stessa, e non con l’intelletto posto dietro di essa. Un ascolto iniziale potrebbe condurre verso una lettura di La valse basata su la sua circostanza storica: l’edonismo prebellico e infine la violenza musicale che ripercorre gli effetti catastrofici della Grande Guerra nella Vecchia Europa. Ma questa chiave di lettura potrebbe benissimo anche essere invertita, osservando in questo lavoro una celebrazione nel recupero del passato, anziché la sua perdita. La valse usa infatti riferimenti limite musicali come tropi e oggetti di memoria. Questi sono i valzer, la cui frammentazione e giustapposizione non mediata indicano che questo ricordo è in uno stato di crisi.
Tenendo presente che La valse possiede due episodi che incorniciano una suite di valzer centrale, allora l’episodio iniziale si crogiola nella memoria del passato, mentre l’episodio di chiusura adotta una relazione più ambivalente con il passato, ripetendo i gesti d’apertura ma contemporaneamente cancellando i materiali passati in una disfatta e turbinio estatico. Uno spostamento qualitativo in cui la memoria passa dalla modalità di costruzione ad una di distruzione, poiché è in questo momento che la memoria mette in gioco la sua stabilità intrecciandosi con l’oblio, in un atto di dialettica.
Senza dubbio La valse è anche musica segnata da un senso di profonda malinconia, merito sicuramente dell’esperienza della guerra vissuta da Ravel come cittadino ma anche come soldato. Secondo Schorske, La valse rievoca non solo la “morte violenta del mondo del XIX secolo”, ma anche il destino dell’individuo nel mezzo di questo sconvolgimento sociale. La transizione musicale allora sarebbe impressione della disintegrazione della cultura liberale fiorente nell’Europa occidentale alla fine del XIX secolo, così come la concomitante trasformazione di uomo razional-sociale in ‘uomo psicologico’ e inadatto alla comunità: razionale, ma anche creatura di sentimento ed istinto.
Non trattandosi di un banale pastiche di valzer viennesi à la manière de Strauss, La valse è manifestazione sonora della concezione di valzer nella veste di azione musico-coreografica per il palcoscenico, dove a recitare sono proprio le varie danze, che si muovono nello spazio, si sovrappongono e interrompono fra di loro, e che Ravel espande e distorce a piacimento. Ma, nonostante il fascino delle sonorità dell’orchestra di Ravel, esse non possono esorcizzare lo spirito sinistro presente dall’inizio in quest’opera. Dissonanza, cromatismo e oscuri motivi ritmici associati persistono in La valse, non in opposizione ai valzer ma in armonia con essi. I materiali opposti si scontrano, senza che l’ascoltatore occasionale se ne accorga, poiché frasi binarie e asimmetriche coesistono con armonia tonale e ottatonica, orchestrazione patinata con quella cacofonica e primitiva. Attraverso il vortice della danza, al tempo stesso vertiginoso ed esilarante, l’ascoltatore sperimenta una fusione di sensazioni che evocano il grottesco: un singolo gigantesco gesto musicale che promuove la contraddizione con l’unità.