Note dai Villa Borghese Piano Days
di Filippo Simonelli - 7 Ottobre 2020
Due giorni di musica in un luogo inaspettato, con risultati da non sottovalutare
Villa Borghese Piano Day è un appuntamento insolito per il panorama musicale romano, e forse proprio per questo ci ostiniamo a seguirlo ad ogni rinnovata edizione. Quest’anno la formula sperimentata nelle edizioni precedenti, ovvero pianoforti diffusi nei vari contesti che la villa romana mette a disposizione, non è stata ripetibile per vari motivi: la soluzione alternativa non è stata però penalizzante. A pochi passi dall’ingresso di Via Aldrovandi si trova infatti una piccola sala, detta “Dei Lecci”, in cui è stato portato il Fazioli messo a disposizione dal negozio di pianoforti Ciampi. Sullo sfondo della parete a vetri, uno scorcio suggestivo della natura circostante della lussureggiante villa romana. Pur non riuscendo a ripetere la perfetta commistione degli anni passati, quando i pianoforti erano in qualche modo parte integrante del tessuto della villa, comunque non sfigura e anzi mette al riparo dal possibile maltempo che era stato preventivato in questo weekend.
L’allestimento interno, quasi interamente di colore verde, ha creato una piacevole continuità cromatica. Il grande vantaggio del suonare al chiuso garantisce una migliore acustica: per quanto non sia probabilmente la miglior sala da concerto che si possa desiderare, la Sala dei Lecci restituisce con maggior fedeltà il suono di quanto non si potesse fare nelle precedenti edizioni. Manca forse l’aspetto di spontaneità e di immediatezza dato dal concerto all’aria aperta, ma non per questo si può dire che non sia stato un successo. Oltre ad essere sold out, tutti i concerti offrivano uno spaccato di pubblico con età media più bassa rispetto a quella del consueto concerto cameristico. Anche questo è un segnale che manifestazioni così particolari hanno qualcosa da dire e da cui in generale si può e si deve imparare.
Pianisti in erba, musicisti cresciuti e un elefante nella stanza
Il pianoforte e la giovane età degli interpreti sono stati, due costanti dell’evento, ma l’iniziativa dei Pianisti in erba merita un cenno a parte. I Pianisti in Erba sono associati al progetto di riforestazione portato avanti da Plant for The Planet, che Villa Borghese Piano Day sostiene con tutte le sue donazioni. I giovani musicisti prendono parte alla manifestazione con spirito diverso: c’è chi fa in questa occasione un primo saggio col pubblico, chi vuole mettersi alla prova e chi ha già una marcata maturità, come nel caso della pianista Nicole Marra (che potete ascoltare a partire al minuto 55:30 di questo video).
Nel corso dei due giorni di rassegna si sono alternati sul palco numerosi pianisti – con qualche altra sorpresa sparsa qui e lì, creando un programma composito sia per quel che riguardava la proposta musicale ma anche propriamente per l’approccio allo strumento. A rompere il ghiaccio è stata Cristiana Pegoraro, con un programma “naturalistico” fatto da una trascrizione originale delle quattro stagioni di Vivaldi, che la pianista umbra padroneggia con una tranquillità notevole e dal terzo tempo della Sonata n. 17 di Beethoven, ribattezzata postuma come “La Tempesta”. Sul palco le ha dato il cambio, poco dopo, il Beethoven ricostruito nel cosiddetto “Addio al Pianoforte”, interpretato da Emanuele Stracchi. A trent’anni da poco compiuti ha già compiuto studi che vanno ben oltre la preparazione tipica di un musicista, forte di una spiccata propensione filosofica che innerva buona parte delle sue esecuzioni. È il caso anche di queste Goldberg, in cui prevale spesso l’aspetto speculativo. Il primo concerto del pomeriggio è quello di Vincenzo Baglio, che articola un programma dall’impronta necessariamente romantica nel quale il potentissimo Fazioli della Sala dei Lecci risponde alla sua vocazione più profonda. Seguono poi due concerti targati Avos di cui parleremo più avanti, così come faremo riguardo al Salotto Beethoveniano. È interessante spendere qualche parola sul concerto jazz di Luca Filastro. Interamente basata sull’improvvisazione e su sonorità radicalmente diverse da quelle sentite fino ad allora, la sua esibizione funge un po’ da contraltare rispetto al pianismo classico che ha popolato la sala per tutta la giornata, e rappresenta un esperimento fusionista perfettamente al suo posto in questo contesto.
Tra i musicisti “cresciuti” del secondo giorno inseriamo anche Martina Carini, che nonostante abbia anagraficamente quattordici anni dimostra una maturità e una sicurezza invidiabili di fronte allo strumento. Leggendo il suo curriculum sembra che sia nata e cresciuta dentro un pianoforte, e probabilmente questa è una conditio sine qua non per raggiungere questi risultati all’alba dell’adolescenza, al di là della boutade: il suo programma è costruito su un romanticismo di quelli densi e pieni di note che fanno tremare i polsi anche a concertisti più affermati. Il suo lavoro è veramente notevole e pulito (avrò contato forse due sbavature, di quelle un po’ fisiologiche quando si fa questo lavoro). Forse i brani sono ancora un po’ troppo omogenei tra loro, nel senso che Martina Carini appare ancora molto onnivora, quindi affronta in maniera molto simile anche autori molto diversi l’uno dall’altro. Se dovessi spendere i miei cinquanta centesimi su un’esecuzione in particolare, prenderei il Beethoven dell’esordio.
Dopo di lei, sono saliti sul palco due Francesco Bravi e Adriano Leonardo Scapicchi, che si sono cimentati nella sfida del pianoforte a quattro mani con la resa pianistica della Rapsodia Spagnola di Ravel e della Sagra della Primavera; i due brani sono veramente impegnativi, forse la vetta di virtuosismo nei due giorni soprattutto per la coordinazione e il lavoro congiunto che i due musicisti, che sono un duo anche in altre occasioni, hanno messo in piedi. Il momento jazzistico ed improvvisativo ha fatto capolino anche nel secondo giorno. Questa volta il pianoforte della Sala dei Lecci ha vibrato sotto le mani del jazzista Greg Burk, un ospite fisso della manifestazione di Villa Borghese, originario di Detroit e che porta un approccio sicuramente diverso al pianoforte, meno italiano per certi versi, rispetto a quello anche di Luca Filastro. Il suo pianismo è più radicato nelle tradizioni del nuovo mondo mettendo in risalto la sua filiazione dal mondo Bebop e in particolare all’universo sonoro di Charlie Parker, di cui ha ricordato il centenario della nascita, a cui ha accostato anche il suo approccio compositivo. Prima dell’ultima apparizione dell’Avos, si sono esibiti due musicisti di grande esperienza, Gilda Buttà e Luca Pincini, che sono legati dal nome di Ennio Morricone con cui hanno collaborato in numerose occasioni e che è stato spesso al centro di loro programmi. Il duo questa volta si è esibito in un programma più tradizionale alternando Beethoven e Debussy, mettendo in risalto le peculiarità drammatiche di due musiche estremamente distanti tra loro.
Tra le iniziative più peculiari di questa due giorni di concerti c’è stato il concerto per Sofia, una delle elefantesse del bioparco, che è stata risvegliata dalle note del Chiaro di Luna di Debussy suonato da Gaia Vazzoler sul pianoforte che per l’occasione è stato posto su di una terrazza accanto allo spazio di Sofia. Con quel tanto di sprezzo del pericolo che ci vuole per suonare a portata di zampa e di proboscide da un elefante che, per quanto simpatico e di stazza non particolarmente imponente, rimane pur sempre un elefante, la direttrice artistica si è cimentata in un happening riuscito, almeno a giudizio della spettatrice stessa che ha anche salutato a fine esibizione, come potete vedere qui sotto.
Avos Project in azione
A contribuire all’aspetto giovane della rassegna ha contribuito certamente la forte presenza dell’Avos Project, che alternando studenti e docenti, o addirittura mescolandoli come nel caso del gran finale, ha portato un’ulteriore ventata d’aria fresca. Ma attenzione, non bisogna cadere nel tranello del giovanilismo, anche perché gran parte dei musicisti che si sono susseguiti pur essendo anagraficamente molto giovani non hanno sfigurato in termini di maturità e di approccio strumentale. Tra gruppi e allievi singoli, l’Avos ha portato sul palco ben quattro progetti: il Trio Enea, il Trio Neos, un trio composto proprio da docenti della scuola di musica e il finale scoppiettante con una versione per dodici strumenti del “Carnevale degli animali” di Saint-Säens in cui si sono integrati alla perfezione in un finale vivace, sicuramente ben contestualizzato all’interno del Bioparco ma che da una dimostrazione plastica dell’approccio Avos alla musica da camera, di cui avevamo abbondantemente parlato qui.
Mettere insieme studenti e docenti sullo stesso palco rompe quelle barriere che si creano generalmente tra docente e discente, generando allo stesso tempo un po’ di sana ansia da prestazione che spinge gli studenti a dare quel tanto di più per non sfigurare e risparmiarsi la sonora lavata di testa alla successiva lezione. Dal punto di vista dei singoli ensemble, due trii, formati da giovanissimi musicisti, non difettano certo di personalità: il Trio Enea dà l’idea di essere un ensemble formato da musicisti talentuosi ma che si stanno ancora studiando a vicenda per trovare il punto di incontro perfetto, mentre il trio Neos funziona già meglio come insieme; chiaramente i musicisti dell’Avos sono quelli musicalmente più maturi e soddisfacenti da sentire: si percepisce una grande intesa, frutto di anni di lavoro assieme, specie tra Pianelli e Montore che hanno dato una forza veramente considerevole ai due trii in cui si sono esibiti, l’opera 11 di Beethoven e l’opera 114 di Brahms, alternandosi con i clarinettisti Lucio Brancati e Michele Fabbrica.
Un recital molto italiano
Il concerto dell’ora di pranzo della domenica di Umberto Jacopo Laureti è stato probabilmente il più interessante della rassegna. Del pianista abbiamo già parlato di recente, e ci basti quindi richiamare come sia un interprete raffinato ma capace anche di una potenza impressionante nella resa esecutiva; il programma merita invece un ulteriore approfondimento. Il progetto di cui Laureti è portabandiera, Piano Renaissance, consiste nella valorizzazione e la riscoperta del repertorio pianistico e strumentale della musica italiana a cavallo tra la fine dell’Ottocento e inizio del Novecento, un’epoca storicamente dominata dal tramonto dell’astro di Verdi a cui si è andata intrecciando l’ascesa di quello pucciniano. Non solo, sostiene il pianista marchigiano: accanto a questi due – indiscutibili – giganti, c’è stata una tradizione strumentale importante ed innovativa, che affonda le sue radici nelle “durezze” strumentali di Frescobaldi e del rinascimento italiano ma che al tempo stesso è capace di assorbire elementi di contaminazione da tutte le altre tradizioni europee. Così sotto le sue dita si alternano le sonorità francesi di Casella, che compose la sua splendida Toccata quando era ancora studente di Faurè, a quelle mitteleuropee di Busoni, incorniciate dalla riscoperta rinascimentale di Respighi, con un omaggio beethoveniano dovuto nel mezzo. Il pianista ci ha confessato, prima di mettersi alla tastiera, che si accingeva a suonare a freddo: eppure per tutta la durata del concerto il suo approccio ai singoli pezzi era estremamente naturale, costituendo un flusso spontaneo. Certo, c’è da dire che stiamo parlando comunque di un professionista che per quanto giovane ha già dimostrato una confidenza straordinaria con lo strumento e che, avendo inciso ed eseguito numerose volte in pubblico questo repertorio (con l’eccezione di Beethoven), gli sia proprio connaturato. L’impressione che lascia è che si costruisca un disegno consapevole, studiato a tavolino e frutto di svariate riflessioni eppure raffinatamente schietto e sincero, con l’immancabile gioia di suonare un repertorio che non è scelto con altro criterio che non la propria personale predisposizione. Vi pare poco?
Dovendo scegliere un singolo pezzo da incorniciare, porterei a casa la Toccata di Casella: indubbiamente meno virtuosistica di quella di Busoni e per certi versi persino infantile nell’interezza corpus del compositore torinese, assume veramente un particolare valore sotto le mani di Umberto Jacopo Laureti, che ne offre una rappresentazione compatta ma vivace.
Vedere per credere, il concerto è su youtube come tutti gli altri.
La storia di un salotto e la filosofia dei Villa Borghese Piano Days
Questo racconto dei Villa Borghese Piano Days non segue un ordine cronologico, quindi ha perfettamente senso chiudere con un evento che in realtà si è svolto sabato pomeriggio. Si tratta del salotto Beethoven, in cui i due direttori artistici Gaia Vazzoler e Massimo Spada, rispettivamente nelle vesti di musicologa e di pianista, si sono prodigati in un omaggio a Beethoven necessario nell’anno del duecentocinquantesimo anniversario della nascita. I musicologi solitamente terrebbero conferenze in queste situazioni e i pianisti concerti, ma Massimo e Gaia hanno deciso di optare per una sorta di terza via, un qualcosa che sia a metà tra un Ted Talk e una lezione concerto in cui lavorare sui frammenti quasi nucleari delle due sonate proposte, l’op. 10 n. 1 e la 101 per restituire una spiegazione dettagliata di ciascun singolo mattoncino che, assommandosi, riesce a creare la magia delle sonate del compositore di Bonn. Queste iniziative talvolta risultano divisive per il pubblico, scisso tra gli amanti del rigore altero del concerto classico e chi invece cerca sempre un qualcosa di diverso, a mo’ di esperienza. A giudizio di chi scrive, il bello di questo salotto, oltre al fatto che ha un’atmosfera se possibile più fedele all’ideale della musica da camera rispetto al distacco che si crea fisiologicamente in una grande sala da concerto, sta nel fatto che è inserito in una cornice più ampia, quella dei due giorni di concerti, in cui rappresenta sia idealmente che fattualmente un complemento a tutto quello che si è già visto e sentito. Il rischio che fosse “solo” un altro concerto era concreto, in alternativa, mentre così c’è la possibilità vera di penetrare più a fondo nella memoria delle persone dando strumenti di comprensione anche a chi non mastica sonate ogni giorno.
In un contesto come quello dei Villa Borghese Piano Days, dove la musica la fa comunque da padrone per quasi quarantott’ore, inserire proposte diverse ma comunque funzionali alla comprensione e a far scoccare quella scintilla nel pubblico è sempre benvenuto.