Alì, l’utopia di Pasolini per Cappelletto e D’Amico
di Filippo Simonelli - 7 Dicembre 2022
L’anniversario Pasoliniano è un’occasione di incontro di diversi artisti e intellettuali che si sono uniti per confrontarsi con il poliedrico genio del friulano. Accanto a questo multiforme ingegno, che negli anni è stato indubbiamente di ispirazione per osservatori e commentatori, c’è un aspetto quasi profetico della sua opera: nell’osservare la realtà del suo tempo, Pasolini riusciva a intuire delle verità che all’epoca erano magari solo in nuce, ma che oggi sono diventate fatti concreti della nostra vita quotidiana a tutti i livelli.
Il progetto “Mi chiamo forse, Alì”, un grande melologo ideato da Sandro Cappelletto, raccoglie entrambe le suggestioni assieme. Sotto un unico grande cappello vengono riunite le profezie pasoliniane con la sua capacità di sovrapporre e mescolare arti di diversi tipi, prodotti tradizionali e d’avanguardia. E così sullo stesso palco convivono voci recitanti, dello stesso Cappelletto e di Alessandra Arcangeli, e voce lirica, con il soprano Patrizia Polia; un duo di strumentisei “classiche”, con Saria Convertino al Bayan e il violoncello di Alessandra Montani, e uno di musicisti appartenenti alla tradizione folcloristica, ovvero i fratelli Enzo e Lorenzo Mancuso. Il tutto unito dall’allestimento scenico di Cecilia D’Amico, dalla rielaborazione dei testi pasoliniani di Cappelletto e dalla musica composta ad hoc da Matteo D’Amico. Abbiamo incontrato questi ultimi due protagonisti della parte creativa per farci raccontare il processo creativo che c’è dietro a un progetto del genere.
…Ma partiamo ancora da prima: chi è questo Alì?
Cappelletto: La figura di Alì, Alì dagli occhi azzurri per la precisione, nasce nella creatività di Pasolini all’inizio degli anni ’60 in una poesia, intitolata “Profezia”, che Pasolini aveva dedicato a Sartre. Come spesso accade, questa poesia ha anche degli ampi spazi in prosa.
Siamo negli ultimi anni della guerra d’Algeria, un evento sconvolgente non solo per la Francia, per il Mediterraneo ma anche per tutta la politica internazionale: uno stato africano, dopo tutto quel tempo di dominazione coloniale, rivendicava con tutti i mezzi necessari il proprio diritto all’indipendenza e all’autonomia.
Cosa vede Pasolini? Vede che i sommovimenti politici in corso stanno per portare un’ondata di migrazioni, e Alì sbarcherà a Crotone, a Palmi, risalirà verso l’Europa, verso Marsiglia e le altre città della malavita, come le chiamava lo stesso Pasolini. E questo personaggio, Alì dagli occhi azzurri, rappresenta una sintesi felice tra la vitalità, la carica erotica ed energetica – in definitiva la voglia di vivere – e la stanchezza dell’occidente a cui va incontro. Addirittura Pasolini sentenzia, profeticamente, che per questo occidente la storia è finita.
Questo Alì così particolare e al tempo stesso così tipicamente mediterraneo, come mai ha questi occhi azzurri?
Cappelletto: Chiaramente non esiste nessun Alì dagli occhi azzurri, ma è la rappresentazione di una nuova umanità che può nascere, e che porta con sé quanto di meglio può nascere dall’incontro dei due mondi intorno ai valori del sacro, dell’antico e della solidarietà. Ali soprattutto rappresenta un’apertura culturale fenomenale, una rappresentazione pratica del valore della fratellanza. Alì, nell’immaginazione creatrice di Pasolini, incarna un’occasione per rendere vivo questo incontro. E questo è il punto di partenza del lavoro.
Una delle caratteristiche più originali del progetto è quella della sovrapposizione, della mescolanza vera e propria tra la musica colta e quella tradizionale. Cosa significa questo per chi lavora alla parola che soggiace a questo progetto?
Cappelletto: È stata un’integrazione felicissima: i fratelli Mancuso, sia nei testi che nella loro vocalità e soprattutto nel loro ricorso a una varietà strumentale estesissima in cui sono presenti gli strumenti più semplici ma anche più antichi della civiltà musicale mediterranea. L’unione di violini, organetti, flauti con le loro voci cavernoso sembra venire direttamente dalla preistoria, ma si tratta di due persone che vivono e lavorano oggi. Questa verità di fondo, quasi archetipica della loro voce e del loro canto, ci appartiene. Anche la loro vicenda personale di italiani emigrati per necessità in Inghilterra, che poi sono a loro volta tornati in Italia e hanno dunque affrontato, sulla propria pelle, tutte le difficoltà dell’essere altro, dell’essere emarginati, è sublimato nella loro creatività, nei loro testi e nella loro musica. I temi che trattano sono elementari – la perdita, la lontananza, ma anche la dolcezza e il riscatto. Attraverso di loro sono venuto a conoscenza di un libro, “erano come due notti”, che raccoglie le testimonianze di una serie di naufraghi. E questo testo costituisce un altro tassello che completa il lavoro, nel tracciare un ritratto di tanti contemporanei Alì.
Qui un esempio della poetica dei Fratelli Mancuso in azione
Come funziona la convivenza tra due mondi molto distanti, come quello della musica colta e scritta con la tradizionale orale e quasi folcloristica dei Fratelli Mancuso?
D’Amico: Anzitutto alla base di questa convivenza c’è il rispetto reciproco, che vuol dire non mescolare per forza due mondi distanti. Il percorso può essere fatto in parallelo e con un’osservazione reciproca a distanza: non siamo troppo distanti e tantomeno agli antipodi. Il comune denominatore di questo nostro progetto è stato quello di creare una musica piena di intensità, di pressione e di pathos. Credo che sia questo il punto che ci permette di unire le due linee parallele che camminano assieme durante tutto lo spettacolo. Tematicamente diciamo che molte delle canzoni che hanno scelto i Fratelli Mancuso per questo progetto trattano temi che il testo stesso di Pasolini – e poi la mia musica stessa dunque – cerca di indagare: il rapporto madre-figlio, il tema della solitudine e quello dell’identità, che sono tutti temi portanti del lavoro nella sua integrità così come è stato concepito poi proprio da Sandro Cappelletto.
Un discorso a parte merita poi un altro grande tema di questo spettacolo, che è il rapporto tra cultura nostra e cultura altra, che è poi simboleggiato dall’incontro dei mondi musicali che fanno parte di questo lavoro e in definitiva è quello che riguarda tutto quello che Pasolini aveva immaginato, quasi profetizzato, in grande anticipo sui tempi. Il filo conduttore del Progetto “Mi chiamo forse, Alì” è proprio il sapersi incontrare con un altro diverso da noi. Pasolini aveva ampiamente descritto anche nei termini in cui ci siamo trovati a viverlo oggi e lo stesso Sandro ha fatto largo uso di queste parole nel suo testo, e quindi come musica per me è diventato un lavoro sulla parola scritta.
Quest’opera era già stata tenuta a battesimo cinque anni fa; oggi però ha una veste nuova, cos’è cambiato dall’ultima volta?
In questa nuova ripresa in occasione del centenario dalla nascita di Pasolini, rispetto alla prima di 5 anni fa, ho voluto aggiungere alla voce recitante l’intervento di un soprano che per dare corpo alla parte finale del lavoro interviene per rendere “concretamente” dal punto di vista sonoro il rapporto tra madre e figlio. Dal punto di vista musicale c’è anche un rimando al famoso “Stabat Mater” di Iacopone: per fare questo ho inserito la voce cantante e lirica – accanto a quella narrante – per arricchire il messaggio e sposarsi al meglio con il controcanto dei Fratelli Mancuso. Ma tutto questo è sempre in funzione della parola recitata, perché il testo si configura come un grande melologo con delle “isole” di canto, il più delle volte rappresentate dai fratelli ma che alla fine trova un nuovo approdo anche nel canto del soprano. Le poesie sono spesso poesie recitate provenienti dal repertorio dello stesso Pasolini, o anche suoi testi non poetici. C’è la descrizione minuziosa dell’ultima, celebre parte del film “Accattone”. La mia musica ha talvolta qualche guizzo di vita autonoma, qualche lampo a parte ma trattandosi di un organico molto esile con due soli strumenti e vista l’importanza del testo abbiamo scelto di sviluppare tutto il lavoro in sua funzione.
“Mi Chiamo forse, Alì” verrà eseguito il 13 dicembre alle ore 21 presso il Teatro Don Bosco, a Roma. Il progetto è realizzato con il sostegno del Ministero della Cultura – Direzione generale Spettacolo ed è vincitore dell’Avviso Pubblico Lo spettacolo dal vivo fuori dal Centro – Anno 2022 promosso da Roma Capitale – Dipartimento Attività Culturali. Tutti i dettagli sono disponibili qui.