Sirene, forche e folletti – Il pianismo macabro di Gaspard de la Nuit
di Nicola Giaquinto - 13 Marzo 2024
Il legame fra poesia e musica è sin da tempi immemori vettore in grado di far luce sulle sfumature più sottili di due forme d’arte estremamente affini e spesso non comprese a fondo quando prese singolarmente.
Va detto, però, che per quanto la presenza di brani ispirati a scritti poetici sia addirittura assiomatica nell’opera omnia di ogni compositore che noi oggi immortaliamo nel nostro piccolo grande Olimpo, una risonanza perfetta fra due menti geniali sfiora la rarità di un’eclissi solare.
A Gaspard de la Nuit, miracoloso vertice di incontro fra la particolare penna del poeta francese Aloysius Bertrand e i nuovi espedienti armonici di un giovane Maurice Ravel già nel pieno della sua maturità compositiva, spetta un meritato posto d’onore all’interno di questo particolare sottoinsieme artistico.
Nei primi anni del Novecento il pianista spagnolo Ricardo Viñes – pienamente a conoscenza del particolare fascino che il suo camarade nutriva per la poesia di Edgar Allan Poe – ebbe la non tanto azzardata idea di consigliare la lettura di quest’occulta raccolta di poesie datata 1842, consapevole del fatto che essa per Ravel sarebbe sicuramente stata fonte di ispirazione.
Con il suo titolo vagamente alludente all’antico testamento (Gaspard deriverebbe infatti da “Gizbar”, termine che in aramaico indica il tesoriere reale), l’opera Bertrandiana descrive con un linguaggio estremamente dettagliato, ma allo stesso tempo compatto ed ergonomico, alcune delle immagini più sinistre del folklore medievale europeo, narrate – a detta dell’autore stesso – dal diavolo in persona.
Non vi è sorpresa sul fatto che tutto questo ebbe su Ravel un effetto stregante già dalla prima lettura, ispirandolo eventualmente a cimentarsi in quello che sarebbe diventata una delle sue opere più conosciute, nonché più rappresentative di un intero repertorio.
Detto ciò, per quanto oggi catalogato come brano altamente rappresentativo del movimento impressionista – primato che il compositore ripudiò sempre apertamente sia nei propri confronti, che in quelli della sua musica – “Gaspard de la Nuit, trois poèmes pour piano d’après Aloysius Bertrand” va interpretato come un viaggio oltre i confini dell’immagine e del suono; un canovaccio musicale dove la tempera e l’olio si corteggiano, nonché uno dei più affascinanti trattati di scrittura pianistica, all’interno del quale tecniche nuove e antiche si mescolano dando vita al singolare linguaggio armonico di una delle menti più brillanti della storia della musica.
Dall’intera raccolta di sei libri di poesie Ravel estrapola un trittico di immagini molto diverse fra di loro: Ondine, Le Gibet e Scarbo, tre cornici che videro la loro prima esecuzione nel gennaio del 1909.
Al pianoforte, quasi come per chiudere un cerchio cominciato anni prima, lo stesso Viñes.
Ondine
Le prime sperimentazioni raveliane ispirate al movimento dell’acqua precedono di gran lunga la pubblicazione di Gaspard de la Nuit. È il caso di opere come Jeux d’Eau, un piccolo brano per pianoforte scritto da un compositore appena ventiseienne ma già così ricco di innovazioni armoniche e ritmiche paragonabili a zampilli d’acqua illuminati dal caldo sole estivo, oppure Une Barque sur l’Ocean, dove l’impressione di galleggiare sull’infinità del mare è quasi palpabile.
Ondine, brano che apre il tetro sipario di Gaspard de la Nuit, è l’ultimo saggio di Ravel ispirato a questo elemento così affine al suo particolare stile di scrittura pianistica.
Come da titolo, il testo da cui esso prende ispirazione – narrato in prima persona da Bertrand – descrive questa bellissima ma effimera ninfa di lago dai capelli argentati intenta a supplicare chiunque la stia ascoltando a raggiungerla nelle profondità dell’acqua, affinché ella possa assorbirne l’anima.
Già dalla prima battuta Ravel conferma il suo primato di orafo dello spartito dando voce alle “gocce” menzionate nella prima strofa, le quali prendono forma di fredda nebbia sonora che timidamente cerca di mormorare una lontana idea di Do# maggiore attraverso un incessante schema ritmico costantemente disturbato da un intrusivo La.
Ecoute! – Ecoute! – C’est moi, c’est Ondine qui frôle de ces gouttes d’eau losanges sonores de ta fenêtre illuminée par les mornes rayons de la lune
Attorno a quello che oramai è diventato un incipit iconico per ogni pianista, il tema dell’ondina d’un tratto emerge con tutta la sua soavità; una cantilena discendente celata a malapena dal caliginoso accompagnamento.
È chiaro dalla natura ondulatoria del brano, dal continuo sormontare e soggiacere del motivo melodico principale e dalla graduale espansione del registro del pianoforte, che la scena in questione è tutt’altro che statica.
Ravel descrive con incredibile padronanza di linguaggio una figura fugace che incessantemente volteggia attorno alla corrente dell’acqua per sedurre la sua preda, celata appena da sottili e freddi vapori lacustri.
Una volta esaurito il sensuale exposè della ninfa e sulla base dello stesso accompagnamento ritmico iniziale, questa volta in Sol# maggiore, un tema di rifiuto discendente faticosamente fa fronte a quello iniziale.
In quello che potrebbe essere considerato lo sviluppo di una pseudo forma-sonata (definita così da Olivier Messiaen), la musica comincia ad affannarsi e quello che prima era un accompagnamento metronomicamente regolare comincia a subire le prime increspature ritmiche.
La crescita di sonorità è lenta ma graduale, i due temi principali spiraleggiano attorno ad una struttura armonica che lentamente si gonfia come gli argini di un fiume.
Doppie terze cromatiche, poliritmie e arpeggi composti sono solo alcuni degli ausili tecnici che conducono inevitabilmente all’esplosivo climax, un liquido turbinio armonico dove l’intero raggio sonoro del pianoforte viene adoperato in una sublime progressione di accordi di nona minore discendenti.
Alla fine di quella che è indubbiamente uno dei passaggi più mozzafiato di tutta la suite, la tensione a poco viene fatta evaporare da glissandi, la stoffa sonora lentamente si comincia a sfibrare e – una volta appiattite le acque – l’Ondina pone fine alle sue suppliche in un ultimo rassegnato soliloquio.
Dopo un breve ma infinito attimo di silenzio la ninfa si deflagra attraverso una serie di saettanti arpeggi politonali, un ultimo gesto di malizia prima di tornare nelle oscurità dell’abisso dove attenderà la prossima preda.
Le Gibet
Il secondo tableau di Gaspard de la Nuit – a differenza dei due che lo contornano – è completamente privo di movimento.
Le parole di Bertrand illustrano con una spaventosa quantità di dettagli la lugubre scena di un morto che pende dalla forca, una figura senza nome circondata da un ambiente sterile dove l’unica dinamicità è data dagli insetti che le ronzano attorno indisturbati, facendo della sua pelle livida e dei capelli sporchi di sangue sporadico punto di appoggio.
Un tramonto purpureo tinge il cielo di rosso, a far fiocamente vibrare l’aria solo il vento caldo dell’estate e il suono lontano delle campane che riecheggia fra le tristi mura di una città senza vita.
Non risulta affatto strano come Ravel abbia approfittato dell’unico input sonoro ricavabile dalla poesia come base su cui cucire tutto il tessuto musicale di questa magnifica e singolare pagina pianistica.
C’est la cloche qui tinte aux murs d’une ville sous l’horizon, et la carcasse d’un pendu que rougit le soleil couchant.
La scelta di includere questo testo venne sicuramente presa non solo per il suo grottesco potenziale comunicativo delle sue parole, ma anche sotto influenza del fascino quasi naïf che il compositore nutriva per il suono delle campane, con i loro ricchi armonici dentro i quali gli piaceva perdersi mentre si concedeva una sigaretta sul suo balcone parigino, lontano da tutto e da tutti.
Se titoli precedenti a Gaspard de la Nuit come La Vallée Des Cloches e Entre Cloches (rispettivamente da Miroirs e Sites Auriculaires) riproducono questo particolare fenomeno acustico con timbri alquanto accesi e ritmi ben più vivaci, in Le Gibet tutto ciò è ben diverso.
Data la natura opprimente dell’atmosfera, l’effetto voluto è ovviamente quello dell’incessante pulsazione di una campana a morto.
Ben centocinquantatré rintocchi fanno da drone ad una serie di lugubri episodi melodici senza meta, contornati da accordi a dir poco glaciali.
L’aspetto più ingegnoso del brano è il continuo cambio di prospettiva sonora che l’ascoltatore per forza di cose subisce nei confronti del Si bemolle, nota che essendo ancorata ad ogni battuta si ritrova in balia di un tappeto armonico sempre in movimento.
Nell’ottica di una cornice così salubre Ravel non lascia spazio ad alcuna libertà espressiva, specifica addirittura all’inizio del brano che il tempo deve essere il più lento possibile e assolutamente senza alcun diletto interpretativo fino all’ultima nota, dicitura che provocò non poco attrito fra lui e il dedicatario Ricardo Viñes… al quale, da buon virtuoso, piaceva correre.
Con Le Gibet Ravel tocca la vetta più alta della comunicazione musicale confermando così il proprio primato di eccelso comunicatore.
Scarbo
Nel silenzio della notte, in una stanza fievolmente illuminata, l’ultimo personaggio di Gaspard de la Nuit fa la sua brusca entrata in scena.
Ad introdurre il tutto, un inquisitivo tema a tre note viene due volte disturbato da pungenti accordi contornati da una sfilza velocissima di note ripetute fino ad arrivare ad un improvviso crescendo su un tremolo vitreo che lentamente si dissipa nel silenzio.
Le tre battute di pausa seguenti preludono quella che è – volutamente dal compositore – la parentesi più virtuosistica dell’intera opera, nonché di tutto il repertorio pianistico a noi fino ad oggi arrivato.
Al piccolo ma temibile Scarbo spetta l’ingrato compito di chiudere le danze.
Questo piccolo diavoletto, per quanto le sue dimensioni possano sembrare quasi comiche, è un pericoloso spirito maligno che infesta le abitazioni causando danni di tutti i generi, scomparendo e riapparendo ex abrupto fra le tenebre degli anfratti della camera da letto.
Il disorientamento è il motivo conduttore del brano; Scarbo è talmente fulmineo nello strappare le tende, graffiare la testata del talamo ed arrampicarsi sul soffitto che l’unica soluzione verosimile sembra quella di rassegnarsi, aspettando sotto le coperte che la sua furia eventualmente termini con l’arrivo del giorno.
Ravel, il quale in questo racconto evidentemente vide un qualche cosa di autobiografico essendo cronicamente insonne, era ovviamente consapevole che una narrazione del genere richiede una scrittura pianistica molto più elettrica e febbrile dei due precedenti movimenti.
Il terzo tableau di Gaspard de la Nuit è quindi un brano dalle parvenze quasi cubiste, fatto di tantissimi micro-episodi e brandelli tematici che presentano una palette dinamica estremamente estesa.
I movimenti erratici di questo folletto furtivo sono perfettamente emulati da una serie di note ribattute, sonorità liquefatte all’interno di pedali lunghissimi e volate vorticose che improvvisamente sorgono e svaniscono nel nulla, lasciando l’ascoltatore senza pilastri strutturali su cui appoggiarsi.
Una sensazione di adrenalina pura travolge l’ascoltatore durante i vari climax di quello che secondo il compositore non doveva essere altro che una caricatura del romanticismo – più specificatamente Islamey di Balakirev – ma che alla fine è risultato trasformarsi in un brano che ha oltrepassato i confini dell’artigianato musicale, ispirando (e facendo sudare) generazioni intere di pianisti.