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L’arte delle Folksongs, vista da Britten

di Filippo Simonelli - 17 Aprile 2021

Tutta la carriera di Benjamin Britten è costellata di opere in cui la voce occupa un ruolo centrale: le opere, da Peter Grimes in giù, sono state la parte del suo catalogo che più ha giovato al suo successo oltre che al definitivo rilancio dell’opera lirica in terra britannica; i cicli di Lieder – impropriamente detti – basati sui sonetti di Michelangelo o sulle poesie di Hardy; le opere per coro o con coro, e persino la voce recitante, che dona il senso didattico al meraviglioso tema con Variazioni su Purcell, universalmente noto come “The Young Person’s guide to the Orchestra” che per il pubblico italiano ha accompagnato per anni le trasmissioni di Radio3.

A questo interesse speciale per la musica vocale ha sicuramente contribuito il sodalizio – artistico e di vita – con il tenore Peter Pears, con cui era solito esibirsi sia in musica originale che di repertorio: se vi volete bene, qui sotto trovate una magnifica registrazione del duo che analizza e interpreta parte di Winterreise.

Ma c’è anche un interesse alla musica popolare delle isole britanniche – e non solo – che portò Britten a lavorare e a raccogliere musica che col tempo divenne proprio repertorio del duo. Ma queste musiche tradizionali hanno avuto storicamente un successo importante tra i compositori, quindi bisogna fare un attimo un passo indietro.

I più appassionati fan di Beethoven conosceranno sicuramente i cicli di Songs e Folksongs che il compositore di Bonn scrisse a più riprese su commissione basandosi su testi tradizionali delle isole britanniche: tra queste quelle Inglesi, Irlandesi, Gallesi e Scozzesi. Seppur pare che Beethoven abbia intrapreso questa fatica per motivi prevalentemente venali, il risultato non è comunque disprezzabile, affatto. Spesso l’inventiva di Beethoven lo portò a rielaborare queste melodie tradizionali per trio, con esiti ancora più interessanti e che per certi versi hanno avuto una fortuna anche maggiore del suo repertorio liederistico più tradizionale, specie nell’anno appena trascorso di celebrazioni per i 250 anni dalla nascita.

Dopo quello beethoveniano, il ciclo di “Folksongs” più interessante che sia mai stato pubblicato è proprio quello di Britten. Il compositore del Peter Grimes infatti lavorò alla raccolta di canti tradizionali per gran parte della sua vita, a partire dal 1939 fino alla sua morte.

È interessante notare come le folk songs abbiano costituito un trait d’union fondamentale per i compositori più diversi della tradizione britannica della prima metà del ventesimo secolo, arrivando anzi a coprire tutta l’anglosfera: Finzi, Grainger, Buttersworth, Vaughan Williams e Britten, ovviamente, solo per citare i più noti. Ognuno di questi compositori visse il rapporto con la musica tradizionale delle isole britanniche con un rapporto personalissimo e distinto dagli altri, ma ognuno di loro ci ha lasciato testimonianze preziosissime per un secolo in cui lo splendido isolamento dell’isola delle due rose si ruppe anche in musica.

L’operazione di Britten è stata ispirata da motivazioni delineate dallo stesso compositore in un suo articolo pubblicato nel 1941 sul periodico americano Modern Music: “The chief attraction of English folksongs are the sweetness of the melodies, the close connection between word and music, and the quiet, uneventful charm of the atmosphere… Folksongs are concise and finished little work of art”.

Il lascito britteniano oggi si compone di 47 brani per pianoforte e voce (esistono anche degli altri sets con chitarra e arpa, rispettivamente), che sono stati incisi per la prima volta in versione integrale da due soli interpreti, il tenore Mark Milhofer accompagnato da Marco Scolastra al pianoforte. Rispetto ad altre incisioni precedenti, oltre all’unicità degli interpreti, è curioso anche il luogo in cui la registrazione ha avuto luogo: il minuscolo teatro di Trevi, piccolo comune umbro che inaspettatamente ma non troppo ospita uno splendido teatro all’italiana da poco più di 200 spettatori, che nel corso di un anno ha visto nascere l’opera. Il lavoro, pubblicato da Brilliant Classics, è per l’appunto imponente ma rifinito e curato. Una cifra abbastanza ricorrente nelle scelte interpretative è quella di eseguire le Songs con un passo decisamente più rapido rispetto a quello usuale delle registrazioni dello stesso Britten – ma è una caratteristica abbastanza comune anche in altre incisioni, come si può leggere qui per esempio. Una possibile spiegazione di questa discrasia ricorrente è che Britten, e Pears con lui, avessero in mente una versione più “comodamente liederistica”, per così dire, di questa musica, e il video con Winterreise di sopra avvalora almeno in parte questa tesi; mentre un interprete che le affronti oggi e si concentri per un determinato periodo di tempo esclusivamente su di esse ne mette in luce il lato più grezzo e vivace, del resto evocato dal titolo stesso. Siamo pur sempre nel campo delle scelte legittime di ogni interprete, sia chiaro, specie in presenza di una musica che lascia comunque dei margini di libertà abbastanza significativi e che dunque si presta a questo tipo di operazioni. Anzi, mettere a confronto questo tipo di lavori con l’originale aiuta ad apprezzare più a fondo il lavoro del compositore che si fa creatore/interprete e arricchisce ancora di più il bagaglio di possibili conoscenze che ne possiamo avere.

“Chiaramente l’incisione di Britten è stata un punto di riferimento per noi”, spiegano gli interpreti. “Per me però era fondamentale essere me stesso, e ad un certo punto ho smesso di ascoltare le loro registrazioni. Anche perché nella scrittura di Britten c’è già davvero tutto, e se si segue quello che vuole la musica ne esce ben più piena”, racconta Milhofer. “Già, anche se spesso siamo dovuti tornare indietro proprio su quel testo e sulle indicazioni originarie”, chiosa Scolastra: “alle volte Mark mi chiedeva di essere meno personale, di seguire i metronomi: con The Ash Grove, per esempio, non avevo visto studiando il tempo di metronomo, ed avevo preso a suonarlo ad una velocità che mi andava a genio e veniva perfettamente. Quando siamo andati a provarlo, Mark era basito per l’eccessiva velocità e l’abbiamo rilavorato insieme da zero! Questa è la grande fortuna di avere una musica del genere che possiamo rendere in modo così veritiero, basandoci non solo sul testo ma anche sulle registrazioni del compositore stesso – che anche come pianista, tra l’altro, era magnifico.”

E l’aspetto interpretativo in questo caso si mischia con quello creativo: il pianismo di Britten offre spesso la sponda per la rilettura e la “modernizzazione” di alcune di queste songs, come “The Crocodile”, così “piena di dissonanze, seconde e settime in successione che danno quell’effetto unico ad un pezzo che in teoria dovrebbe essere quasi divertente”, commenta Scolastra da pianista. “Ma è stata effettivamente molto divertente da cantare” gli fa eco, ridendo sotto i baffi, il sornione Milhofer.

Tra le Songs spiccano grandi classici universali come The Salley Gardens e Greensleves, accostati poi a brani dal carattere più locale come la divertente Come You Not from Newcastle, di cui lo stesso Britten realizzò anche una versione orchestrale, o l’intimistico brano di apertura I Wonder as I Wander. Se Pears le cantava in un certo modo, anche con il suo timbro particolarmente light, leggero e inglese, c’è poco da fare, occorre adeguarsi: è lui il dedicatario, l’interprete, l’anima vera e propria della musica. “Non abbiamo voluto farci ingabbiare da queste interpretazioni” conclude Scolastra “ma era come ascoltare la Bibbia: ce la siamo proprio goduta e abbiamo cercato di farne una versione un po’ nostra ma che fosse fedele all’originale.”

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