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5 ascolti per incontrare Copland

di Filippo Simonelli - 24 Ottobre 2017

La musica di tradizione classica americana non ha mai raccolto grandi consensi in Europa e neppure in Italia. Con le felici eccezioni degli ibridi jazzistici di Gershwin, l’interesse mostrato nei confronti di interpreti e direttori del calibro di Bernstein non ha trovato riscontri comparabili per i compositori. Simile fu il destino di Aaron Copland, riconosciuto alle sue latitudini come “il decano della musica americana”  ma mai troppo considerato nell’Italia delle avanguardia: il maestro newyorkese fu bollato spesso come sempliciotto autore di alcune oleografie della prateria dal sapore nostalgico.

Eppure c’è molto di più oltre a queste “oleografie”, che pure rappresentano un prodotto artisticamente di altissimo livello. Per capire Aaron Copland e la sua produzione occorre fare un passo indietro. Quelle che abbiamo chiamato oleografie sono parte della produzione matura e di maggior successo, databili in un periodo che va dalla seconda metà degli anni ’30 alla fine degli anni ’40. Un periodo sicuramente florido per la creatività del nostro, ma non l’unico né quello interamente rappresentativo di tutta l’arte che ha messo su pentagramma in quasi novant’anni di musica.

Senza necessariamente arrivare al livello biografico in senso stretto (di cui si può avere un primo esempio qui, o per i più curiosi qui), possiamo ricorrere ad una periodizzazione della sua produzione. Ciascuno di questi periodi ha dei contorni molto sfumati e non di rado si trovano contaminazioni recirpoche, che però non impediscono di leggere la carriera di Copland nel suo insieme come il frutto della sovrapposizione di più correnti artistiche distinte legate da un filo conduttore unico può essere d’aiuto per orientarsi nella discografia di questo grande musicista. Possiamo individuare un primo periodo Neoclassico che va dagli anni ’20 fino alla metà del decennio successivo, quando prese il via una fase “populista” che coincise con gli anni del suo maggior successo infine un ritorno al Neoclassicismo, condito con qualche sperimentazione con le tecniche seriali e d’avanguardia.

Novant’anni di musica

Aaron Copland nacque il 14 novembre del 1900 da una famiglia di immigrati dall’ex impero zarista, da poco giunta ad Ellis Island in cerca di quella terra promessa che era l’America all’alba del secolo breve. Quinto figlio di una progenie numerosa, raccolse dai fratelli maggiori una passione per le arti. Ad undici anni decise di intraprendere la strada musicale, e dopo dopo un periodo di studio newyorkese con il maestro Rubin Goldmark, decise di imbarcarsi per l’Europa, destinazione Conservatorio di Fontainebleau, alle porte di Parigi. Qui avrebbe incontrato Nadia Boulanger, sua vera mentore soprannominata l’amazzone, che con i suoi insegnamenti avrebbe dato la spinta fondamentale alla prima fase della sua produzione.

Passacaglia

Il primo prodotto notevole che vide la luce nel periodo parigino di Copland è una Passacaglia, datata 1922. Il brano, pietra miliare della fase neoclassica, è un omaggio cifrato all’amata docente. In appena sette minuti, il brano pianistico contiene numerose citazioni dai Quadri di un’esposizione di Mussorgskij, la composizione l’amazzone aveva tenuto il primo seminario frequentato dal giovane Copland, immediatamente stregato dal fascino e dalla competenza dell’insegnante.

La Passacaglia nacque come compito per casa: Nadia Boulanger era solita far esercitare i suoi studenti su forme antiche prese dal barocco o addirittura dalle epoche precedenti. Strettamente apparentati alla Passacaglia sono, non a caso, i Quattro Mottetti che Copland compose nello stesso periodo. Ma questo brano aveva un qualcosa in più, e lo stesso Copland lo aveva intuito tanto che acconsentì a farlo pubblicare pochi mesi dopo averlo ultimato, relegando invece i Mottetti al chiuso del suo quaderno di appunti per molto tempo, fino al 1979.

La composizione, con un incedere mastodontico fin dalle prime battute, contiene in nuce i numerosi spiriti che avrebbero accompagnato il compositore fino alla maturità. La fedeltà al modello stilistico pre-romantico, rivestito nella foggia neoclassica allora in voga, si sposa con dei passaggi di una leggerezza quasi jazzistica, preludendo così ai futuri sviluppi del concerto per pianoforte o delle “Visions of Jazz” del balletto Grohg. Ultimo tassello di questo composito mosaico è una concezione quasi organistica della composizione: il brano contiene dei passaggi notati su tre pentagrammi, che lo rendono quasi ineseguibile su una normale tastiera ma perfettamente compatibile con la tecnica organistica; probabilmente un altro omaggio alla maestra Boulanger, valente virtuosa anche all’organo.

El Salón México

Nel 1936 la fase Neoclassica di Copland aveva terminato la sua spinta propulsiva. Una fredda ricezione della critica di alcuni lavori ritenuti più sperimentali, come la suite del balletto Grohg o la Short Symphony, e l’influsso musicale ed ideale di Hindemith con la sua Gebrauchmusik, letteralmente una musica d’uso, avevano spinto il musicista newyorkese a guardare altrove. Fondamentale per indicare la nuova strada fu un viaggio in Messico, il primo di una lunga serie, che Copland compì con Viktor Kraft per incontrare il compositore messicano Carlos Chavez, con cui intratteneva un denso carteggio da mesi. Il motivo che avrebbe portato i due musicisti a legarsi in una profonda e durevole amicizia era la convinzione che, per rendere grande la musica del nuovo continente fosse necessario svincolarsi dalla tradizione europea. Non solo da quella romantica, però, come era già ampiamente avvenuto. Occorreva guardare nelle radici dei popoli americani ed estrarre da lì il materiale su cui costruire il nuovo edificio musicale. Da questo humus ideologicamente molto fertile nacque la scintilla primigenia della musica populista di Copland. Il primo brano ad incorporare questo stile fu proprio dedicato alla terra di Chavez, simbolicamente intitolato “El Salón México”, dal nome di uno dei club più popolari della capitale. Il brano è una raccolta di numerose istantanee del viaggio di Copland nella terra dei Maya, simbolicamente rappresentate dalle melodie di tre popolari canzoni messicane, Palo Verde, La Jesuita ed El Mosco, che Copland aveva annotato nel corso del viaggio in attesa di poterle adattare alle proprie necessità. Il brano consta di quattro sezioni incastonate tra una introduzione di 18 battute ed una coda. Copland sviluppa i contrasti ritmici tra le varie sezioni nel corso di tutto il brano, arrivando fino ad un finale quasi ritmicamente molto variegato con cambi di tempo repentini e continui.

Proprio per la “povertà” del materiale di partenza, il lavoro del compositore è interamente teso a rivestire di volta in volta i semplici passaggi melodici dei motivi messicani con vesti nobili, facendo sì che i dieci minuti del brano siano un profluvio di sincopi, ritmi irregolari e contrastanti tra di loro, ma anche di armonie che si fanno mano a mano sempre più complesse. Il lavoro di Copland, per certi versi, ricalca quello compiuto da Bartók negli stessi anni con le musiche transilvaniche ed ungheresi, pur con le dovute differenze. Se Bartók infatti, specie nelle composizioni più didattiche manteneva una fedeltà quasi letterale al canto originario, Copland lavora cesellando il materiale in suo possesso, preoccupandosi di non perdere mai l’intelligibilità immediata del brano, che era comunque pensato come brano “per le masse”.

Terza Sinfonia

Posta al centro di questo personalissimo elenco, la Terza Sinfonia rappresenta l’apice della produzione coplandiana per vari motivi. Dal punto di vista formale, la Terza rappresenta finalmente il pieno sviluppo della forma sinfonica in Copland dopo un tentativo poco riuscito (la Short Symphony) e uno atipico (la Organ Symphony); dal punto di vista del riconoscimento critico e del successo di pubblico, dal momento che ricevette plausi ed elogi dalla gran parte dell’ambiente musicale dell’epoca e che entrò da subito nel repertorio standard delle orchestre americane; infine perché è una sintesi di tutto quel che Copland era stato fino ad allora, ed in un certo senso un preludio a parte dei suoi sviluppi futuri; nonché il brano più lungo di cui sia stato autore.

La Sinfonia vide la luce in un periodo particolarmente felice dal punto di vista professionale per Copland. Aveva appena raccolto uno dei suoi massimi successi dal punto di vista finanziario con le musiche per il film “The North Star”, composte in collaborazione con un paroliere come Ira Gershwin.  La richiesta di comporre una sinfonia da parte di Serge Koussevitski, direttore della Boston Symphony Orchestra e dominus della musica americana, capitò nel momento più adatto. Lo stesso Copland ammise di aver concepito la sinfonia proprio pensando a Koussevitski, a ciò che amava dirigere e ai sentimenti che metteva nella musica.

Primo e secondo movimento

Il brano si articola in quattro movimenti per un minutaggio totale che in media si attesta intorno ai 45 minuti. Il primo tempo, Molto Moderato, è un lungo e lentissimo inno in forma d’arco, che sviluppa due temi che si incrociano strada facendo, a mo’ di preghiera non senza qualche eco degli spirituals tradizionali dei neri d’America. Il canone che si sviluppa nella prima sezione viene interrotto, dopo pagine e pagine di musica, da un richiamo dei tromboni che introducono la seconda sezione costruita su una melodia di tredici note, che muore tanto improvvisamente quanto era iniziata, dando nuovamente spazio all’inno-corale che chiude il cerchio del primo tempo. Lo scherzo, posto in seconda posizione, è strutturato secondo il modello ABA, con delicato un trio centrale compreso da due possenti sezioni guidate dagli ottoni. Questa volta però il movimento della musica non è in forma di arco, ma prende le mosse da una breve forma cadenzale, non propriamente tematica, che apre il brano, ripetuta tre volte arricchita di volta in volta con processi contrappuntistici.
Terminata questa triplice affermazione appare il vero tema principale del brano che fa una comparsa relativamente breve, destinato ad essere sostituito presto dal Trio, che ricalca invece le melodie quasi folkloreggianti tipiche dei balletti di Copland, quasi una rappresentazione in musica delle sconfinate praterie che avevano conquistato i pionieri. La festa per la conquista viene però interrotta da un nuovo impetuoso ritorno dello scherzo, il cui materiale si intreccia mano a mano con quello trasfigurato del Trio in un climax finale concluso da un robusto colpo dei timpani.

Terzo movimento e finale

Il terzo e il quarto movimento si susseguono quasi senza soluzione di continuità all’ascolto, sebbene siano due brani chiaramente distinti nella sinfonia. Il terzo tempo, indicato con l’agogica di Andantino, si sviluppa di nuovo su una struttura ad arco articolata su tre sezioni, ABCBA, che si susseguono con un crescendo nell’intensità e nell’impeto. E dal primo movimento raccoglie non solo le idee formali, ma anche quelle tematiche, tanto che ciascuna delle tre melodie principali delle tre sezioni echeggia in maniera più o meno dichiarata una del primo movimento. In particolare nella sezione A abbiamo una versione dilatata di un tema del trombone, mentre le sezioni B e C presentano due momenti separati del tema principale di quello che avevamo chiamato inno-corale. Il quarto movimento è probabilmente quello più impressionante ad un primo ascolto. Nonostante si siano già susseguiti quasi trenta minuti di musica, l’attenzione viene subito catturata da un tema soffuso dei fiati, che è quello della Fanfare for the Common Man, qui privo del suo carattere eroico originario, piuttosto ispirato a quel momento pastorale del trio del secondo movimento. Ma la quiete della prateria cede rapidamente il passo al trionfo dell’uomo comune, il cui inno viene solennemente introdotto da archi e percussioni fino ad essere solennemente eseguito dagli ottoni in tutto il loro splendore. La Fanfara, tuttavia, non esaurisce in sé tutta la carica emotiva del terzo movimento. Al contrario, si presta a fungere da materiale per uno sviluppo del tutto inatteso, inaugurando una sorta di rumba-toccata, omaggio discreto del compositore alla cultura latino-americana. I due temi infine, quello originale della Fanfara e quello nuovo della toccata si incontrano nella ricapitolazione finale del brano arrivando ad un finale glorioso e splendente. O , per dirla con una teoria tanto suggestiva quanto fantasiosa attribuita a Virgil Thompson, rappresentano l’equivalente musicale di un processo dialettico hegeliano, con tanto di tesi, antitesi e sintesi.

Nonostante l’autore abbia sempre rifiutato qualsiasi connotazione ideologica per il brano, la Sinfonia è stata eletta come rappresentante musicale dello spirito del New Deal e dell’America guerriera che si apprestava a ricostruire il mondo come aveva fatto in patria dopo la grande recessione. Non è un caso che i materiali utilizzati nel climax del quarto movimento della composizione fossero quelli della Fanfare for The Common Man, un brano nato proprio nei giorni più duri della guerra.

Concerto per clarinetto

Pochi mesi dopo aver completato la scrittura della Terza Sinfonia, nel 1947, Copland si trovava in Brasile. La sua fama lo aveva reso ormai un ambasciatore universale della musica americana nel mondo, e veniva spesso inviato a tenere conferenze o a dirigere lontano da casa. In quel di Rio de Janeiro fu raggiunto da una commissione dal parte del celebre clarinettista jazz Benny Goodman, che domandava un concerto. La capacità di Goodman di trovarsi ugualmente a suo agio nel jazz come nella musica classica lo aveva reso uno dei più popolari musicisti negli Stati Uniti, tanto che il virtuoso aveva commissionato musica anche a Bartók e Stravinsky, vere superstar dell’epoca. Copland accettò la commissione di Goodman, che praticamente gli consegnava una carta bianca, ma il concerto non ebbe una genesi facile. Solo nel 1948 la creatura iniziò a prendere forma.

Il Concerto per Clarinetto è un brano decisamente atipico. Si articola su due movimenti, da eseguire senza soluzione di continuità intervallati da una cadenza del solista. Il primo movimento, dal carattere elegiaco, è concepito come una forma ABA, in cui il clarinetto dialoga dolcemente con l’orchestra d’archi. La forza espressiva, il bittersweet liricism si scioglie lentamente nella cadenza, in cui il solista non solo mette in luce le sue abilità, ma di fatto introduce le idee tematiche che saranno al centro del secondo movimento, che prende le mosse da un glissando del clarinetto, chiamato smear dai Jazzisti, lo stesso che poi tornerà alla fine della coda del secondo movimento. I materiali su cui Copland poggia la sua costruzione sono di natura molto differente l’uno dall’altro, come si intuisce immediatamente fin dal primo ascolto. Il primo movimento ha un sapore delicato, simile alle ballate e ai momenti lirici delle musiche dei balletti che avevano dominato la produzione di Copland negli anni ’50, mentre il secondo tempo è una fusione di ispirazioni variegate provenienti tanto dalla musica brasiliana quanto da temi di tradizione ebraica e inevitabilmente jazzistici.

Piano Quartet

“Ho finito gli accordi, sento di averne bisogno di nuovi […]” Con questa espressione molto curiosa Aaron Copland spiegava ad un perplesso Leonard Bernstein perché avesse scelto di adottare la tecnica dodecafonica di Schönberg nel suo quartetto con pianoforte, nel 1950. All’epoca le tecniche della dodecafonia e del serialismo iniziavano a fare il loro prepotente ingresso nella musica americana, e Copland colse il treno al volo, prima ancora di Stravinsky o dell’amico Roger Sessions, generalmente riconosciuti come gli importatori del metodo negli states.

Il Piano Quartet nacque nella primavera del 1950 su impulso di una commissione di Elizabeth Coolidge, e fu eseguito lo stesso anno dal New York Quartet con Copland al pianoforte. Articolato in tre movimenti, il quartetto è il primo esempio di utilizzo di serie da dodici toni. Ma non si tratta di un utilizzo convenzionale del metodo: descrivendo il brano qualche anno dopo, Copland avrebbe detto

“Per come la vedo io, la dodecafonia non è nulla di più che una prospettiva visuale. Come un trattamento fugale, è uno stimolo che ravviva il pensiero musicale. Si tratta di un metodo […] e dunque non risolve alcun problema espressivo”.

La struttura del quartetto è articolata in tre tempi. L’incipit del primo tempo è dato dal violino che presenta per la prima volta l’idea tematica attorno a cui ruota tutta la composizione. La serie in realtà non ha tutte le note, omettendo il La naturale, e viene presentata prima nella sua forma primaria che nella sua inversione. Il brano però, pur adoperando dei procedimenti compositivi d’avanguardia, non perde mai la sua forma tonaleggiante, procedendo spesso per gradi congiunti discendenti, tutt’al più con forti accenti cromatici. Quello che Copland desidera nei lavori di questa parte conclusiva della sua carriera è combinare i mezzi espressivi più evoluti a sua disposizione, pur senza mai esserne succube, con una sostanziale intellegibilità del suo messaggio espressivo. Non a caso ad una struttura armonica più evoluta Copland ne associa una ritmica molto più lineare. In questo senso si tratta di lavori speculari rispetto ad alcuni della fase populista, come il Salón México che abbiamo già visto sopra.

Musicalmente, la scelta di Copland di discostarsi dal modello schoenbergiano appare più netta se consideriamo il valore che il compositore austriaco dava alla serie nella sua interezza. L’esposizione della serie, prima nella sua forma primaria e poi nelle vesti retrograde e di inversioni retrograde ricorrono spesso nelle composizioni serial di Schönberg, mentre Copland adopera raramente tutti e undici i toni della sua serie, indipendentemente dal procedimento con cui essi sono variati. La prima serie ha una funzione quasi tematica, e gli altri frammenti ne derivano con maggiore o minore somiglianza per tutto il susseguirsi dei tre brani.

Il secondo tempo, Allegro Giusto, mette ancora più in evidenza il contrasto tra modello armonico e struttura formale. Se qui infatti il materiale alla base è meno ammiccante verso la tonalità, Copland lo organizza in una struttura più facilmente riconducibile al modello del Rondò di Sonata. La principale idea “tematica” appare anche qui in capo al movimento, ed è meno strettamente vincolata alla serie originale, ma piuttosto ne nasce da un frammento.

Il terzo movimento, Non troppo lento, è un finale insolito per un lavoro del genere, ma al tempo stesso pone il quartetto perfettamente in linea con i grandi lavori da camera che nascevano in quegli anni in Unione Sovietica dal genio di Shostakovic’.
Harold Clurman, storico amico e compagno di stanza del compositore ai tempi di Fontainebleau, ha descritto questo finale, e con esso tutto il quartetto, come una raffigurazione musicale della quiete che precede il lancio della bomba atomica . Negli anni della guerra fredda, Copland era riuscito a dar voce in un lavoro non programmatico e apparentemente svincolato dalle logiche politiche, era riuscito a dar voce alle paure profonde di una nazione ancora sconvolta dalla guerra.

Il lavoro è svincolato da queste logiche solo in apparenza però: in effetti anche solo con la scelta di adottare uno schema seriale Copland aveva aggiunto un sottotesto dalle forti connotazioni politiche che addirittura trascendevano i confini degli Stati Uniti d’America. Nel 1948 Andrej Zdanov, uno dei più potenti membri del Partito Comunista Sovietico ed incaricato di presidiare sulla produzione artistica del suo paese, aveva condannato nel libello arte e socialismo tutte le degenerazioni formaliste e naturaliste che prendevano piede nel panorama musicale sovietico. L’attacco, rivolto principalmente a Shostakovic’, ebbe una eco di portata mondiale. Copland in particolare fu profondamente traumatizzato dall’incontro che ebbe con il compositore sovietico nel 1949, in occasione di una conferenza di pace a New York in cui questi, visibilmente turbato, aveva pronunciato una solenne abiura del proprio formalismo e una dura condanna ai musicisti che continuavano a seguire quello stile degenerato. Sconvolto da quelle dichiarazioni, lo stesso Copland, che di lì a pochi anni sarebbe stato sottoposto al fuoco del maccarstimo, affermò di aver composto il Quartetto in spregio ad una pletora di ufficiali sovietici (ma anche americani) pronti a decidere e ad insegnare ai musicisti come fare il loro lavoro.

Filippo Simonelli

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